Una prefazione pedante e non richiesta
Qualche tempo fa stavo guardando Wolfwalkers, capitolo conclusivo della trilogia tematica di Tomm Moore di cui andremo a parlare oggi, e ho realizzato una cosa: siamo troppo abituati all’intrattenimento. No, non è una provocazione.
Da 10 anni a questa parte – a voler essere clementi – siamo inondati di cose, soprattutto immagini. Le nostre percezioni sono sovra-stimolate, con l’esito che recepiamo i contenuti che fruiamo quotidianamente in maniera distratta, annoiata e – soprattutto – senza entusiasmo.
Inoltre – e perdonatemi se ve lo ricordo in ogni articolo che scrivo – siamo in mezzo a una pandemia. Ciò significa maggiore flessibilità nella gestione della routine e un aumento esponenziale del tempo passato a cazzeggiare. L’attività base del cazzeggio nel 2021 è il binge watching, pratica che per sua stessa definizione rende addicted: più ne hai, più ne vuoi.
Questo modo di fruire i contenuti rincoglionisce il cervello.
Non lo dico per fare il moralista, sarebbe ipocrita chiamarmi fuori da questo meccanismo; e poi per essere in qualche modo un critico attento di un certo fenomeno è necessario viverlo, subirlo – almeno in parte – per verificarne gli effetti. Ma io non sono un critico.
Non starò qui a dirvi che questo modo di fruire dell’intrattenimento è sbagliato, frivolo o quant’altro: la mia vuole solo essere una riflessione, scaturitami da un’esperienza che ho vissuto in prima persona.
Riuscite ancora ad avere paura degli horror? Io personalmente no. Non sono un particolare cultore del genere, ma di certo di film che ti turbano il cervello ne ho visti tanti. Tra tutti questi ci sono solo due cose che mi abbiano fatto VERAMENTE paura: Babadook e David Lynch. Roba che se mi guardo Carrie – Lo sguardo di Satana rimango con l’espressione di un ornitorinco al sole con tanto di grattata di palle e che se guardo L’esorcista rido.
Questo accade perché siamo completamente desensibilizzati alle immagini forti. Su 4chan ci siamo passati tutti.
Nel 1975 Profondo rosso ebbe un successo enorme perché incarnava un nuovo modo di rappresentare l’inquietudine e l’orrore: SPAVENTAVA le persone. Oggi se lo dai in pasto alla generazione Z al massimo ti concedono che è un bel thriller.
Facciamo degli esempi anche più pop. Se guardo Indiana Jones o Jurassic Park, certamente ne riconosco l’inestimabile valore culturale e l’impatto profondo che ha avuto sulla collettività, ma non ne rimango colpito, non ne resto attratto.
Quello che credo sia il problema è che la mia generazione, ma in generale la nostra contemporaneità, ha perso la capacità di farsi stupire, in un clima di disincanto generalizzato. Ciò dovuto alla sovraesposizione alle immagini a cui siamo soggetti. Si è calcolato che in media, ogni giorno, ognuno di noi, entra a contatto con 600.000 immagini. Io lo trovo destabilizzante.
Ma veniamo a noi.
Tomm Moore e la meraviglia
Dopo tutto questo pippotto fa strano parlare di film d’animazione, che rappresentano forse l’immagine artificiale per antonomasia. Tuttavia è partito tutto da qui.
Questo qua sopra è Wolfwalkers, candidato all’Oscar quest’anno come miglior film d’animazione. Il primo impatto con questo, a mio parere, capolavoro è stato di totale sorpresa. Proprio nel senso che ero sorpreso, non mi sarei mai aspettato di trovarmi davanti delle immagini di questo tipo. Ho passato l’intera durata del film incantato, bloccato davanti allo schermo come un bambino meravigliato dai colori dei cartoni animati. E la chiave sta proprio qui: nella meraviglia.
Per farvi capire cosa intendo vi tiro in ballo un altro film d’animazione candidato agli Oscar: Soul.
Soul è anch’esso un film meraviglioso, a mio parere il miglior film che la Pixar abbia mai realizzato. Ma la smetto che se no questo articolo diventa un episodio di opinioni pericolose.
Ma perché Soul è meraviglioso? Perché è un film che ha avuto il coraggio di osare. Voglio dire, il regista è lo stesso di Up e Inside out, due dei massimi capolavori Pixar. Soul sostanzialmente non è un film per bambini, e non lo dico come punto a sfavore, anzi: però era un rischio, potevi tagliarti fuori la fetta principale del pubblico che guarda i tuoi film. Soul osa anche dal punto di vista tecnico, mettendo insieme uno sperimentalismo inedito a livello di immagine.
Se ci pensate è lo stesso motivo per cui i film Disney degli ultimi 10 anni hanno attecchito meno sul pubblico, soprattutto quello un po’ più grandicello. Riproporre di continuo la stessa formula alla lunga stanca. E quindi remake in live action. Pensate anche a Star Wars, per rimanere in tema Disney.
Giusto per fare un ultimo esempio ed elencare un altro film candidato agli Oscar. Onward è un bel film. Ma lo è quanto Soul? Io sinceramente direi di no. E perché? Perché ripropone una formula a cui ci siamo troppo abituati negli ultimi anni. Il che è un peccato, perché Onward è davvero un bel film, ma manca di mordente.
Tomm Moore nella sua trilogia sul folclore irlandese, che comprende oltre al già citato Wolfwalkers anche The secret of Kells e La canzone del mare, porta tutti questi elementi a un’estremizzazione radicale. Facciamo due esempi in comune con Soul.
In un orizzonte in cui l’animazione 3D è sostanzialmente la regola, Moore opta per un’animazione bidimensionale e tutta giocata sull’appiattimento dell’immagine. Soul, pur essendo animato in 3D, presenta vari inserti animati con tecniche semi-artigianali, tra cui i Jerry e il ponte di luce che porta alla morte delle anime.
Artigianalità è la parola chiave in Moore, che anima i suoi film quasi interamente come venivano animati agli albori del cinema d’animazione: disegnando uno ad uno tutti i fotogrammi, senza interventi digitali.
Secondo esempio è la narrazione, che in entrambi i casi è fitta e intricata. La Pixar ha la straordinaria capacità di rendere fruibili concetti talvolta complessissimi anche ai più piccini; e Soul in effetti dietro al messaggio dell’imparare ad apprezzare le piccole cose della vita nasconde una moltitudine di tematiche profondissime, tra cui: l’accettazione della morte, la depressione, la depersonalizzazione, l’egoismo, la riscoperta del sé e via andando.
Moore invece si contraddistingue per la sua capacità di portare sullo schermo storie del tutto atipiche nell’ambito dell’animazione, mantenendone la profondità e facendole penetrare nel cuore dello spettatore.
Il mito
Per rendere efficaci le sue storie Moore va a pescare dal contenitore di storie più ampio che l’uomo ha a disposizione: la mitologia.
Le storie di Moore sono a tutti gli effetti la rappresentazione di miti e, in quanto tali, si rifanno a una struttura narrativa molto comune al cinema e alla narrazione in generale: il viaggio dell’eroe.
I protagonisti della trilogia irlandese lo seguono passo passo e diventano incarnazioni di passioni, sentimenti, esperienze ed emozioni umane talmente radicate nel nostro inconscio da non poter non attecchire sulla nostra sensibilità. Questa l’ho copiata da Jung.
Ciò che conta è che attraverso questo meccanismo noi spettatori viviamo le avventure assieme ai protagonisti e ne veniamo coinvolti a 360 gradi, sospendendo del tutto l’incredulità ed abbandonandoci al racconto.
È qui che scatta l’elemento dello stupore e della meraviglia.
Moore comunque destabilizza la consueta struttura del viaggio dell’eroe, privandola di volta in volta di alcune figure chiave. Ad esempio, tranne in The secret of Kells, è assente la figura del mentore. Per intenderci: niente Obi Wan che insegna a Luke come usare le spade laser. Ciò rende i protagonisti estremamente instabili e lanciati allo sbaraglio, senza punti di riferimento in un mondo straordinario tutto da scoprire ma fitto di insidie.
In più i protagonisti sono tutti orfani o di entrambi i genitori o di uno di essi; e inoltre le figure genitoriali sono o del tutto assenti o fungono da contraddittorio oppure sono irrilevanti nella conquista finale del protagonista. Questo complicato equilibrio familiare viene in parte ricomposto in La canzone del mare e poi risolto in Wolfwalkers, con la composizione di un nuovo nucleo.
Tutto ciò non fa altro che avvicinare i personaggi di Moore alla nostra contemporaneità, da un lato tenendoli ben saldi agli archetipi dell’inconscio collettivo (di nuovo Jung, chiedo venia) e dall’altro evidenziandone caratteristiche riscontrabili nei protagonisti della nostra vita quotidiana.
Che se ci pensate sono tutti elementi che ritornano anche in Soul e in parte in Onward. In quest’ultimo ciò che mette in moto la macchina narrativa è proprio la mancanza della figura paterna e la risoluzione porterà alla ricostituzione di un nucleo familiare in parte nuovo in parte già consolidato. In Soul il mentore manca e anzi: è il protagonista stesso che a tratti funge da mentore, in un continuo ribaltamento di ruoli a seconda del contesto. E per finire anche in Soul il rapporto tra Joe e la madre è conflittuale, salvo poi risolversi.
L’arte, il folclore, l’immagine
Ciò che garantisce alla trilogia di Moore uno stacco ulteriore e l’accesso alla meraviglia è la straordinaria inventiva visiva.
Come dicevo sopra il regista gioca tutto sulla bidimensionalità, che però non impoverisce l’immagine, ma al contrario l’arricchisce di una pienezza quasi barocca.
La potenza visiva che ne deriva è strettamente legata al folclore irlandese, da cui Moore trae il suo principale serbatoio di immagini. Ma il contatto col folclore è anche l’occasione per accedere, affrontare e aggiornare criticamente episodi cruciali nella storia dell’Irlanda. Per dire The secret of Kells narra dell’assalto all’abbazia di Kells da parte dei vichinghi, rappresentato con una crudezza decisamente sui generis in ambito animato; mentre Wolfwalkers parla del periodo della dominazione di Cromwell sull’Irlanda, ferita mai ricucita coi vicini inglesi. Una delle tante.
Ma la grande visionarietà di Moore sta nel ricondurre la stilizzazione e la tecnica visiva al contesto entro cui la storia è narrata. Siccome in The secret of Kells la storia si svolge in un ambiente monastico, le tavole che animano la narrazione talvolta sembrano assumere la forma di un codice miniato medievale. O ancora ne La canzone del mare, che come il titolo suggerisce è ambientato in un contesto perlopiù marino, i disegni degli oggetti e degli ambienti spesso assumono la conformazione tipica delle onde. Wolfwalkers da questo punto di vista rappresenta l’apice della ricerca creativa di Moore, con un’attenzione straordinaria per i rapporti che instaurano luce e ombra.
Senza comunque dimenticare che Moore ricava alcune rappresentazioni dall’animazione che lo ha preceduto. Ad esempio la ragazzina wolfwalker dell’ultimo capitolo della trilogia ha fattezze che ricordano la Merida di Ribelle. Molti temi trattati, peraltro, lo avvicinano al Miyazaki maturo, da cui riprende anche in parte la rappresentazione dei lupi.
Se mi avete seguito fino a qui, grazie. Questa, ripeto, non voleva essere né una predica né un’invettiva all’assopimento cerebrale delle masse. La religione che è l’oppio dei popoli ha fatto anche fin troppa scuola. Prendetelo piuttosto come un invito a farvi stupire.
Ma non solo. Questa trilogia mi ha insegnato che non serve strafare ed eccedere per realizzare un capolavoro. OCCHIO CHE ARRIVA LA MORALINA BANALOTTA. L’importante è approcciarsi a ciò che si fa con cuore e con passione. Che, casualmente, è di nuovo una caratteristica anche di Soul. Solo se tu sei meravigliato da ciò che fai potrai coinvolgere e stupire gli altri con ciò che fai. E dai, forse visto l’andazzo ‘stavolta la moralina ci stava.