
Mortal Kombat: quando speri in una flawless victory, ma ti esce una fatality
MORTAAAAAAL KOOOOMBAAAAAAT!! Non c’è persona al mondo che non si esalti quando sente le note di “Techno Syndrome”. E non bisogna essere per forza fan di Mortal Kombat per apprezzare il suo tema musicale. Questo vi dà un’idea di quanto il celebre picchiaduro creato dalla Midway Games negli anni ’90 si sia radicato nell’immaginario collettivo.
Un fenomeno così vasto non poteva certo restare confinato al mondo videoludico. E infatti già nel 1995 uscì il primo adattamento cinematografico, diretto dal futuro regista di Resident Evil e Punto di non ritorno Paul W.S. Anderson. Un film abbastanza trash, terribilmente invecchiato sul fronte effetti speciali e purtroppo epurato di tutta la violenza del gioco. Eppure così divertente e fedele all’estetica di quest’ultimo da diventare immediatamente un cult.
Sfortunatamente nel 1997 ebbe un seguito (Mortal Kombat: Distruzione totale) che, senza troppi giri di parole, sta all’originale come Silent Hill: Revelation sta al Silent Hill di Christoph Gans (sempre per restare in ambito “cinegame”). Una pellicola di rara bruttezza che floppò così duramente da stroncare la saga sul nascere. Dopo vennero giusto una serie tv prequel (durata una sola stagione), uno show animato e una webserie. Ma prima di iniziare a parlare di un ritorno al cinema si è dovuto aspettare il 2015 e l’intervento nientepopodimeno che di James Wan.

In veste di produttore, l’autore di Saw e Aquaman si è messo a capo del progetto, ingaggiando l’esordiente Greg Russo per scrivere la sceneggiatura e piazzando in cabina di regia l’altrettanto debuttante Simon McQuoid, filmaker australiano con esperienze di spot e videoclip. L’obiettivo: realizzare una nuova versione di Mortal Kombat che sapesse conquistare lo zoccolo duro dei fan, ma anche i neofiti cresciuti a pane e cinecomic. Dopo una gestazione lunga 6 anni (complice il Covid) questo reboot è finalmente arrivato. Ora, vorrei poter dire che si è rivelato una flawless victory, purtroppo è quasi una fatality.
E dire che l’inizio è promettente. Il lungometraggio si apre con un bel prologo ambientato nel Giappone medievale, in cui assistiamo alle origini della faida tra gli iconici Scorpion (il sempre mitico Hiroyuki Sanada) e Sub-Zero (l’azzeccato Joe Taslim). Una sequenza epica, brutale, drammatica, che strizza l’occhio al cinema di Akira Kurosawa e per un attimo ti fa sperare che il resto della pellicola sia al medesimo livello (spoiler: non lo è).

Dopodiché l’azione si sposta ai giorni nostri, dove facciamo la conoscenza di Cole Young (Lewis Tan), ex lottatore di MMA ed inconsapevole discendente di Scorpion. Un personaggio creato ex novo, che di fatto serve a far immedesimare il pubblico e introdurlo al mondo del film (un po’ come il John Myers di Hellboy). Contattato dai soldati delle forze speciali Sonya Blade (la splendida Jessica McNamee) e Jax (Mehcad Brooks), Cole scopre di essere uno dei combattenti scelti per rappresentare la Terra al Mortal Kombat, un torneo all’ultimo sangue che deciderà il destino del mondo.

Il regno di Outworld cova infatti mire espansionistiche nei confronti del nostro pianeta, ma, secondo le antiche leggi, potrà procedere all’invasione solo in caso di vittoria al Mortal Kombat. Ovviamente il malvagio stregone Shang Tsung (Chin Han) decide di giocare sporco, inviando diversi suoi scagnozzi a uccidere i campioni della Terra prima dell’inizio del torneo. Torneo di cui, è bene dirlo, nella pellicola non vi è alcuna traccia. Questo perché il film di McQuoid non è altro che una lunga origin story dedicata ai personaggi principali, che a sorpresa si conclude prima che abbia effettivamente luogo l’evento del titolo, rimandato al sequel (sempre che venga confermato).

Va da sé che si tratta di una decisione discutibile, che potrebbe lasciare delusi molti spettatori. Ma incredibilmente questa non è la parte peggiore. Prima di arrivarci, è giusto spendere qualche parola sugli aspetti positivi dell’opera. Di buono c’è che Mortal Kombat è scorrevole, abbastanza divertente e presenta delle scene d’azione spettacolari e ben coreografate, seppur in parte rovinate da un abuso di stacchi di montaggio. Soprattutto però è parecchio rispettoso del materiale d’origine, con un occhio di riguardo ai capitoli videoludici più recenti.
Differentemente dalla versione di Anderson, il reboot di McQuoid non lesina sulla violenza esplicita, riempiendo lo schermo di sangue, budella e teste spaccate e porgendo ossequi ad uno degli aspetti più caratteristici e apprezzati del franchise. E se riferimenti ed omaggi non mancano, a sorprendere maggiormente è l’adozione di una progressione narrativa che ricorda molto da vicino quella dei beat’em up, con una serie costante di combattimenti uno contro uno intervallati da brevi “cutscene”, se così possiamo chiamarle.

Peccato che la sceneggiatura non sia nulla di che. Non che mi aspetti una scrittura degna di Aaron Sorkin in un film su dei tizi che si menano, però sarebbe gradito un minimo di coinvolgimento. Invece gli intermezzi tra le scene di lotta sono fiacchi, scontati e poco avvincenti. Come se non bastasse, è fin troppo evidente che sono stati operati dei tagli maldestri in fase di editing, che vanno a creare problemi sia nel ritmo (tutto avviene troppo velocemente) che nello “spessore” della storia, che risulta assai superficiale.
A tal proposito, malgrado la bravura degli attori, i personaggi sono in gran parte appena abbozzati, se non proprio inutili. Lo stesso Cole Young potrebbe benissimo sparire e non cambierebbe nulla nell’economia del film. A ciò aggiungiamo pure la grossa occasione mancata che lo riguarda. Per tre quarti di pellicola, tutto sembra suggerire che Cole sia destinato a diventare il nuovo Scorpion. Alla fine invece il protagonista riceve semplicemente il superpotere della cotta di maglia indistruttibile, che pare rubato al Dave Bautista de L’uomo con i pugni di ferro.

Da parte sua, Shang Tsung è un villain insipido e poco incisivo. Anche perché, per quanto Chin Han si impegni, è dura reggere il confronto con Cary-Hiroyuki Tagawa (talmente perfetto da riprendere il ruolo anche negli ultimi videogiochi). Stesso discorso per Lord Raiden (Tadanobu Asano), che avrà pure l’etnia corretta stavolta, ma è rappresentato come un tizio perennemente imbronciato che passa tutto il film a ripetere di non poter intervenire, salvo poi salvare la situazione ogni due per tre. A questo punto ridateci Christopher Lambert, almeno lui si divertiva un mondo nella parte.

Uno dei pochi personaggi che riescono a brillare è sorprendentemente Kano (Josh Lawson). Con il suo carattere sboccato, irriverente e sarcastico, l’ambiguo mercenario australiano con l’occhio spara-laser ruba la scena a tutti ogni volta che appare, reggendo di fatto tutto Mortal Kombat sulle proprie spalle. Sicuramente ha il grande pregio di aggiungere un po’ di umorismo a una pellicola che altrimenti si prende fin troppo sul serio, al punto da relegare “Techno Syndrome” (remixata per l’occasione da Benjamin Walfisch) ai soli titoli di coda.

Infine, molte perplessità mi ha destato il doppiaggio italiano, nel dettaglio la scelta di lasciare in inglese alcune catchphrase del gioco. Capisco il fanservice, ma è tremendamente straniante sentire gli attori parlare normalmente per poi buttare ogni tanto, “così, de botto, senza senso”, dei “Kano wins!” e “Get over here!”. Sarò all’antica, ma a casa mia non è così che funziona un adattamento.
Lungi dall’essere la trasposizione definitiva che ci era stata promessa, Mortal Kombat piacerà senz’altro agli appassionati di lunga data e a chi cerca due ore scarse di lotte sfrenate e sanguinolente. A conti fatti però, devo ammettere che continuo a preferire la versione più edulcorata, ma al contempo più solida ed equilibrata, di Anderson. Scusa McQuoid, ci rivediamo al prossimo round. Forse.