Film

Nebraska: impariamo a non fermarci

“Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo.”

“Per andare dove, amico?”

“Non lo so, ma dobbiamo andare.”

Okay, vi starete chiedendo per quale motivo inizio una recensione di un film con una citazione tratta da un libro (Sulla Strada, Jack Kerouac: mi permetterei di dirvi che se non lo avete letto dovete correre a porre rimedio): beh, io, che spesso alla fine di un film cerco di sintetizzarne il messaggio, finito di vedere Nebraska ho pensato subito a questa frase, e ora cercherò di spiegarvi perché.

Stiamo parlando di un film del 2014 diretto da Alexander Payne, che racconta la storia di un anziano signore del Montana che crede di aver vinto un milione di dollari ad un concorso, da ritirare, appunto, in Nebraska, dove verrà accompagnato dal figlio e dalla moglie. Una tappa nella città dove vivono alcuni parenti trasformerà poi questo viaggio in qualcosa di più importante di un semplice assecondare le fantasie di un vecchio alcolizzato, ma di questo parliamo dopo.

La particolarità che saltò subito all’occhio di tutti fu quella che il film era stato realizzato in bianco e nero. Una scelta che, di primo impatto, sembra voler conferire solennità (una solennità per giunta pesante, a tratti) all’intero film. Eppure, man mano che la trama prosegue e noi familiarizziamo con Woody Grant (un Bruce Dern così impeccabile che a mio avviso avrebbe dovuto far baciare la terra su cui camminava ai suoi rivali in corsa per la statuetta di quell’anno) e il suo carattere di primo impatto così insostenibile, scopriamo qualcosa di particolarmente interessante: i colori, in realtà, ci sono eccome.

NEBRASKA

Sì, i colori ci sono, solo che non sono quelli che vediamo con gli occhi: i colori li fa Woody con i suoi (pochi) commenti cinici e talvolta inappropriati, la sua irriverente moglie Kate, spesso finanche crudele, la pazienza del loro figlio David e l’accondiscendenza, pur se restia, del fratello. I colori li fanno loro con i loro movimenti, come una corsa nel fienile sbagliato, con il loro non fermarsi mai, e questo li contrappone a tutti gli altri, persino (e soprattutto) ai loro parenti. Sì, perché muoversi in un mondo statico e privo di colori significa essere diversi, e dunque incompresi e talvolta spesso derisi. Succede così che si scopre che ci sono crudeltà peggiori di una moglie che mostra le parti intime alla tomba dell’uomo che la amò e a cui lei non si concesse (una moglie che per giunta finiamo col giustificare, riconoscendola come stanca di sopportare un marito burbero e alcolizzato): la crudeltà di coloro che, senza scrupoli, sfruttano chi reputano più debole e di buon cuore, per poi abbandonarlo quando non più necessario.

Ma Nebraska ci mostra come questa scoperta, come ogni esperienza negativa, apra gli occhi su ciò che di positivo esiste intorno a noi, magari qualcosa che prima avevamo sottovalutato. Ecco allora che una famiglia apparentemente divisa scopre, grazie ad un pretesto così folle, di saper essere ancora unita, e, come nella più classica delle fiabe, trova il “vero tesoro”; il film ci conduce a questo lieto fine senza incorrere in nessun elemento classico, ma anzi attraverso le vie più insidiose e impensabili, e questo grazie ai dialoghi brillanti, immorali e irriverenti, che sono una sorpresa continua e alla poliedricità dei protagonisti.

Tutto questo per arrivare ad una morale (ve l’ho detto che è una mia fissa, devo “tirare le somme”) che potremmo definire eterna: c’è del buono in ognuno di noi, se si riesce (e se si vuole) guardare bene. Per Woody, dopo anni, c’è ancora qualcosa da cercare e qualcosa da dare, anche se non si tratta di un milione di dollari; perché in fondo, a prescindere dalla propria età e da quanti soldi ci possa far vincere il Mega Sweepstakes Marketing, ci si sente vivi solo come diceva Kerouac: non fermandosi mai.

Gaia Cultrone

1994, ma nessuno ci crede e ancora bersi una birra è complicato. Cinema, libri, videogiochi e soprattutto cartoni animati sono nella mia vita da prima che me ne possa rendere conto, sono stata fregata. Non ho ancora deciso se sembro più stupida di quello che sono, o più furba; pare però che il cinema mi renda, quantomeno, sveglia. Ah, non so fare battute simpatiche.
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