
Non ci resta che piangere: un cult unico e irripetibile
«Non tutto in terra è stato sepolto: vive l’amor, vive il dolore; ci è negato veder il volto regale, perciò non ci resta che piangere e ricordare». Da questa citazione del Petrarca (in loving memory of liceo classico <3) trae spunto il titolo di questa chicca comica del 1984 firmata Benigni-Troisi. Non ci resta che piangere è il film che tutti abbiamo registrato almeno una volta in VHS, il film che ogni tanto viene riproposto in seconda serata (e vai a letto gratuitamente alle tre di notte per rivedertelo), il film che a volte proiettano d’estate al cinema all’aperto e fa contenti tutti. È il film di cui ogni tanto rivedi qualche sketch su YouTube, e ti fa sempre ridere anche se li conosci tutti a memoria. È in poche parole un CULT del cinema italiano, con tutte le dovute maiuscole.
Non ci resta che piangere, campione al botteghino per l’anno 1984-1985 (si piazzò addirittura davanti a Indiana Jones e Ghostbusters) ha una sceneggiatura confusa e un po’ zoppicante, una regia praticamente improvvisata, non manca di imprecisioni e incongruenze. Ma quando il genio comico supera la tecnica viene solo da dire “e ‘sti grandissimi cazzi della sceneggiatura zoppicante”: ragazzi, se siete italiani, se siete personcine con buon senso dell’umorismo, se avete un cuore, dovete amare e venerare questo film. Per forza.
Viene però da chiedersi qual è il trucco: perché funziona? Funziona per un unico, preciso, fondamentale motivo: la coppia Roberto Benigni e Massimo Troisi, scrittori, registi e interpreti della pellicola. Tutto il resto è contorno: la trama è una scusa bella e buona per farli divertire.
Un film o un cabaret?
Intendiamoci, l’intreccio nella sua semplicità è super efficace, e non è neanche una lotta di Pokémon (questa è tremenda ma andava detta, scusatemi): nell’estate del 1984 il bidello Mario (Troisi) e l’insegnante Saverio (Benigni) sono fermi ad un passaggio a livello nella campagna toscana. La sbarra non si alza e i due decidono di imboccare una stradina sterrata. Poco dopo però la macchina ha un guasto e, come se non bastasse, inizia a piovere: in cerca di un telefono, i due entrano in una locanda, dove sembra non esserci né telefono né corrente elettrica. La mattina seguente i due si renderanno conto di essere finiti nel “millequattrocento, quasi millecinque”, località Frittole, senza un motivo logico né possibilità di tornare al presente.
Tra omicidi tragicomici, faide familiari, gelosie e partenze, i due imbranati si ambienteranno nell’epoca rinascimentale fino a decidere di intraprendere un viaggio in Spagna per impedire a Colombo di scoprire l’America. Tutto ciò per il seguente valido argomento: in questo modo Gabriellina, sorella di Saverio, non incontrerà il ragazzo americano che l’ha lasciata e non entrerà in depressione.
La storia è rocambolesca, un’avventura dall’andamento goffamente avventuroso, circense. Non ci resta che piangere è una serie di gag messe insieme da una trama fiabesca dove tutto è lecito: una prova attoriale riuscitissima di due comici che recitano un po’ loro stessi, dove uno vuole vedere fin dove arriva l’altro (spesso infatti Benigni e Troisi erano stretti a interrompere le riprese perché uno dei due si metteva a ridere. Che meraviglia di lavoro, quanto avrei voluto saper recitare).
“Chi siete? Cosa portate? Un fiorino!”: comicità d’altri tempi
La critica, forse per la suddetta sceneggiatura zoppicante eccetera, non accolse Non ci resta che piangere con particolare calore, che invece ottenne dal pubblico. Il motivo si capisce benissimo dal livello di comicità di certe scene, entrate nella storia del cinema italiano. Memorabile la battuta”ricordati che devi morire”, la scena del passaggio alla dogana (“Chi siete? Cosa portate? Sì ma quanti siete?Un fiorino!” Googlatela, ORA!) e la scena in cui Mario canta “Yesterday” dei Beatles alla bella Pia spacciandola per sua.
Benigni è il solito giullare toscanaccio: il personaggio di Saverio è un maestro che boccia gli studenti più antipatici, un po’ più coraggioso e opportunista del bidello Mario (Troisi), più timido e pauroso. Le gag sono in gran parte costruite sulle loro diversità; i due si punzecchiano continuamente, dando vita a un tandem comico unico e purtroppo credo irripetibile.
Bonus! La scena della lettera a Savonarola
Parliamo di questa scena. Dai, ma quanto è bella?
Ogni volta che scrivevo ad un professore all’università mi sentivo un po’ così, della serie “No, no, qua ci vuole un saluto per bene, da peccatore umile. Noi ti salutiamo con, proprio, non sappiamo nemmeno… scrivi, ti salutiamo con la nostra faccia sotto i tuoi piedi, proprio il massimo, senza chiederti nemmeno di stare fermo, puoi muoverti!”. E poi dopo millanta parole, ossequi e salamelecchi, ricevevo risposte del tipo “Ok, bella pe’ tte, ci vediamo a ricevimento”.
Ma tornando al film, questa scena è un chiaro e stupendo omaggio alla “lettera” più famosa della storia della commedia italiana, quella scritta alla “malafemmina”, fidanzata del nipote, dai “fratelli Caponi”, ovvero Totò e Peppino in Totò, Peppino e la… malafemmina (1956). Questo sketch sembrerebbe girato all’impronta o quasi, con Troisi che tiene le redini e Benigni che gli va dietro: scena impagabile. La mia preferita.
Ragazzi, Non ci resta che piangere è un film che fa parte di una memoria collettiva dolcissima e nostalgica, il prodotto di una scuola comica italiana che purtroppo non c’è quasi più. Guardatelo con devozione e tutto l’amore che merita.