
Non si sevizia un paperino: Lucio Fulci riscrive il giallo italiano
Dio benedica le serate autunnali, noiose solo per chi ha un orizzonte culturale limitato al centro commerciale. È solo in quelle sere in cui la cosa più trasgressiva che si desidera è sorseggiare una tisana in compagnia di un buon film che si scoprono perle a torto dimenticate: Lucio Fulci, per esempio. Non si sevizia un paperino, per la precisione.
Questo film sarebbe potuto uscire anche con il titolo più immediato di Fanatismo, ma il regista deve aver pensato che, paradossalmente, un lancio così lungo sarebbe rimasto più impresso nella mente degli spettatori. La verità è che, più che i titoli di testa, a sconvolgere gli animi ci pensò una storia parecchio torbida e, soprattutto, una lunga, lunghissima sequenza con una Barbara Bouchet completamente nuda e incredibilmente provocante, per di più in compagnia di un bambino – per aggirare la censura, Fulci dovette dimostrare che il pupo era in realtà un nano adulto e vaccinato: robe che creerebbero scalpore oggi, figurarsi nel 1972.
Ma procediamo con ordine: Non si sevizia un paperino rappresenta una novità per un sacco di ragioni. Prima fra tutte, l’ambientazione: sino a quel momento, gialli e thriller erano ambientati nelle metropoli fredde e piovose, cavalcando lo stereotipo del detective maledetto e dei club fumosi e ambigui. Fulci cambia tutto: Non si sevizia un paperino prende vita nell’estremo sud della penisola, ad Accettura, in una Basilicata ancora medievale. Da sfondo per ridanciane commedie all’italiana, il meridione diventa una terra arsa, arretrata, inquietante, quasi magica; un modo di rappresentare il sud che verrà ripreso quasi trent’anni dopo da Montalbano, e che farà scuola.
In secondo luogo, la storia: in Italia nessuno mai aveva osato portare sul grande schermo un racconto così morboso. Nella Accettura di cui sopra i bambini muoiono misteriosamente: chi sarà lo spietato serial killer? Tanti i sospetti, poche le certezze: potrebbe essere Giuseppe Barra (Vito Passeri), lo scemo del villaggio, o Patrizia (Barbara Bouchet), ricca milanese spedita dal padre nella preistoria, pardon, in Basilicata, per sfuggire alle tentazioni della metropoli, o ancora la maciara (Florinda Bolkan), strega esperta di riti vodoo e con un passato tormentato alle spalle.
La maciara: figura tra le più affascinanti del film, e cartina di tornasole di cosa doveva essere il mezzogiorno negli Anni Settanta. Odiata e al contempo temuta da tutto il paese, vive nella foresta limitrofa, ha avuto un figlio da un incesto che non ha esitato a uccidere a causa delle sue malformazioni, eppure è devastata dalla scelta compiuta anni prima. Naturalmente, nessuno ad Accettura è in grado di comprendere cotanta complessità: la maciara è diversa, e pertanto va emarginata. Così come Patrizia: algida, colta, moderna e trasgressiva, in un luogo dove le vedove portano il lutto vita natural durante e dove i ragazzi vengono educati da Don Alberto (Marc Porel), amorevole sacerdote preoccupatissimo dall’incipiente deriva dei costumi.
Altro punto di svolta in Non si sevizia un paperino: per la prima volta, in un paese che ospita il Vaticano, un prete è una figura ambigua. Scandalo, scandalo, scandalo.
Lucio Fulci riesce a combinare il ritratto di un villaggio in cui ancora si tentano i linciaggi a una regia d’avanguardia – la scena in cui la magiara fronteggia i padri dei bambini nel cimitero del paese è degna del miglior Tarantino; e a presentarci carabinieri impotenti, giornalisti in cerca più della notizia che della verità (Tomás Millán), e povera gente tanto disperata quanto omertosa.
Spietato, coinvolgente, indubbiamente molto furbo: Non si sevizia un paperino ha riscritto la storia del giallo italiano, e perderselo sarebbe un delitto ancora più efferato di quelli che ci narra.