
Norwegian Wood: adattamenti insidiosi di storie inafferrabili
Norwegian Wood, pellicola del 2010 del regista vietnamita Tran Anh Hung, è stata aggiunta al cartellone di Mubi (dove resterà per ameno altri dieci giorni) e al contrario di ciò che accade di solito, ovvero guardare i film giusto quando stanno per scadere, mi ci sono fiondata subito.
Come poter adattare uno dei libri più effimeri ed elusivi di Haruki Murakami?
Certo, adattare Murakami non è facile a prescindere. Quell’arietta onirica che serpeggia facendosi beffe di risate o lacrime, tutti gli angoli nascosti, veri o irreali, che l’autore riesce a scovare, sfuggono al concetto di: “Che bella idea, facciamoci un bel film!”.
Avevo recuperato recentemente, non so quanto visto che il concetto di tempo comincia a sfuggire anche a me come i personaggi di Murakami ormai, Burning, tratto dal perfetto e irraggiungibile racconto Granai incendiati (spero si sia compreso che a me Murakami piace), riscontrando la resa perfetta.
Ma Norwegian Wood! Molto più complesso in realtà! Ci riesce? Abbastanza.
Watanabe (Ken’ichi Matsuya) perde il suo migliore amico Kizuki, che si suicida. Iscritto all’università a Tokyo, negli anni Sessanta durante le rivolte studentesche, si innamora di due ragazze. Naoko, l’ex ragazza del suo migliore amico, fragile e spezzata, e Midori, che parla tanto e vuole vivere anche un po’ di più.
Prima Watanabe si avvicinerà a Naoko, entrambi uniti dal sentimento della perdita. Dopo poco tempo però la ragazza scompare e gli scriverà soltanto dopo essersi rifugiata in un sanatorio a Kyoto. Nel frattempo Watanabe conosce Midori che sembra l’esatto opposto di Naoko e che gli ricorda che bisogna tornare nel mondo per viverlo davvero.
Norwegian Wood è forse il libro più elusivo di Murakami. Lontano da luoghi inconsistenti, apparizioni, misteri e doppi satelliti nel cielo, parla soprattutto di perdita, di come affrontarla, e di come ogni azione sia insospettabile. L’improvviso suicidio di Kizuki, Midori apparentemente lontana da qualsiasi tipo di malinconia, i desideri di Watanabe che prendono forma e poi si distruggono di nuovo.
Tran Anh Hung riesce a distillare la sofferenza e il desiderio di comunicazione che trapelano da ogni luogo che Watanabe incontra. Norwegian Wood sta tutto qui, tra due mondi, come molti altri romanzi di Murakami, ma che in questo caso più che scontrarsi si sfiorano senza mai riuscire a unirsi davvero.
Non c’è bisogno di dire quanta malinconia cova questo film, che il regista è riuscito, giocando sull’elusività, forte un po’ troppa, a mantenere costante.
Ogni azione, ogni luogo che Watanabe visita è delicato, spettrale e invitante insieme. Si ha, in Norwegian Wood, e il film riesce benissimo a trasmettere questa sensazione ed è probabilmente questo il suo lato migliore, che si possa fare qualsiasi cosa. Ascoltare dischi, ribellarsi, avvicinarsi e poi allontanarsi ancora.
Rinko Kikuchi (che interpreta qualche anno dopo Kumiko in maniera favolosa) nel ruolo di Naoko merita la visione della pellicola già da sé. Midori, interpretata da Kiko Mizuhara, sembra non ritagliarsi invece abbastanza spazio, o forse è soltanto il ricordo della Midori del romanzo, così brillante e potente in mezzo alle pagine. In ogni caso, nei momenti in cui Watanabe è con Midori, l’elusività è fin troppo efficace, e forse ci sarebbe stato bisogno di fermarsi un secondo in più, proprio in quel posto e in quelle parole.
Norwegian Wood è un film con un compito difficile e in parte riesce a cavarsela fin troppo bene rispetto alle aspettative.
Il poter entrare nelle vite, vederle e sapere che davvero si può scegliere di tornare e non dimenticare mai oppure fermarsi per sempre, sono elementi che la pellicola riesce a far sentire sulla pelle al suo spettatore, peccando però ogni tanto di eccessiva fuga verso il non voler dire, forzando un po’ troppo la malinconia.