Ode a Hank Moody, che fa di Californication una serie cult da non perdere.
Diciamolo subito, così ci leviamo il pensiero: Californication non è affatto un capolavoro. Anzi, non è nemmeno un’ottima serie, per intenderci, e forse nemmeno una serie media, ma solo medio-bassa, soprattutto per quanto riguarda le ultime due/tre stagioni, che potrebbero tranquillamente essere usate come tranquillante negli ospedali per quanto sono soporifere e prive di guizzi.
Eppure ve la divorerete fino alla fine con fame avida, e vi sfido anche a non amarla. La amerete, amici cari.
Perché nonostante tutto la storia non è male? Perché le gag sono ben studiate? Perché la trama orizzontale nonostante tutto colpisce?
No. La amerete solo e solamente perché c’è lui: Hank Moody.
Chi è Hank Moody?
Hank Moody è uno stereotipo in divenire: è lo scrittore alcolizzato, il seduttore compulsivo, il donnaiolo suo malgrado, l’artista in crisi, il nichilista dal cuore tenero, il depresso iperattivo, il pigro inerte, il rockettaro old-school, l’innamorato incapace di stabilità, il padre cazzone che ne combina una dopo l’altra. Nelle corso delle sette stagioni dello show Hank sostanzialmente non cambia, o se cambia cambia poco, ed è proprio questo, incredibilmente, che ci piace di lui. Mentre intorno a lui tutto ruggisce, si deforma, esplode e ritorna in sé, Hank Moody rimane semplicemente Hank Moody, indifferente a quasi tutto e quasi tutti, tranne che al fascino femminile, all’adorata figliola Becca e a Karen, ovviamente, la donna dei suoi sogni, Musa dei suoi scritti, ma anche ossessione e obiettivo (forse) irraggiungibile.
È l’immutabilità che fa di Hank un personaggio incredibile, interpretato – anzi incarnato – da un maestoso David Duchovny (vincitore del Golden Globe 2008) che, con la sua faccia praticamente inespressiva, la sigaretta tra le labbra, il mascellone da figaccione e quell’aria da stronzo narcisista riesce a far sfilare più mutandine che uniformi a una parata militare.
La sua dimensione abituale è quella del grottesco, la stessa che ovviamente caratterizza Californication, una serie che vive di discorsi osceni che mai nessuno farebbe, di una compulsività sessuale del tutto irreale, di personaggi-macchietta che arrivano, spariscono e – se va bene – appena scalfiscono Hank, grattandone la superficie. E poi c’è la sua ossessione per Karen, ovviamente, che costituisce la vera e propria spina dorsale della serie. Il suo eterno tentativo di ricongiungimento all’unico amore della sua vita è il motore che lo anima, che gli dà motivi per continuare a scrivere, ma che non riesce a trattenerlo dal battezzare ogni ragazza in cui inciampa, dimostrando così la sua incoerenza e assoluta instabilità. Hank vuole Karen, ma vuole anche il mondo.
Per meglio inquadrare il personaggio di Hank Moody potremmo metterlo a metà tra Bojack Horseman, dottor House e Charles Bukowski (ovviamente): un depresso, egoista, improduttivo, alcolizzato genio letterario che preferisce annegare i dispiaceri nell’alcol e nel sesso, in modo tale da procurarsi nuovi dispiaceri da dover poi seppellire con altro whisky e altre donne. Un circolo vizioso su due gambe che, volente o nolente, spesso finisce per distruggere tutto ciò che di buono lo circonda, facendo soffrire soprattutto le due persone a lui più care: la piccola Becca, che (anche a causa delle cazzate di Hank) col passare delle stagioni diventa sempre più un dito in culo, e Karen, consapevole del fatto che Hank sarà sempre l’uomo della sua vita, ma sempre alle prese con l’ennesimo perdono da dovergli elargire per l’ennesima scappatella.
C’è da dire che molto spesso sono le donne a prendere l’iniziativa con lui, e a quel punto Hank, invece di evitare in nome del suo amore per Karen, non riesce mai a trattenersi dal passare al dunque. Il problema, quindi, non è tanto nell’andare alla ricerca di avventure, ma nel non riuscire a resistere alle tentazioni. Questo perché? Perché aver successo con le donne per Hank Moody – e questo lo si capisce quasi subito – è come una specie di conferma di se stesso, di essere ancora vivo, ancora apprezzato, ancora in grado di farcela. Di non essere stato dimenticato.
Alla base del narcisismo di Hank c’è la paura dell’oblio, dell’insignificanza e della solitudine. In quest’ordine.
In tutto questo caravanserraglio di personaggi lussuriosi, incontinenti, volgari, edonisti, narcisisti, egocentrici, distruttivi e autodistruttivi che vediamo in Californication c’è la severissima critica di Tom Kapinos, showrunner della serie, a un’America dissoluta e vacua, i cui unici valori paiono essere rimasti la sbronza e l’eiaculazione, l’edonismo più sfrenato che ormai sovrasta una dimensione familiare ormai pressoché inesistente.
Per questo Hank è uno stereotipo in divenire: perché non riesce a fare pace con nessuno dei suoi due lati, quello di artista dissoluto e quello di amorevole padre di famiglia, ma vi resta invischiato perennemente, distruggendo in un sol colpo (e spesso senza nemmeno volerlo) quello che di buono realizza con fatiche immense, sia le relazioni familiari, sia ciò che scrive nel corso delle sette stagioni. La grandezza del personaggio di Hank Moody sta proprio nella commistione di comico e tragico, di farsa e realismo, che ne fa un personaggio, seppur stereotipico, unico, innovativo, certamente memorabile, che eleva Californication a serie che merita di sicuro di essere vista, perlomeno fino alla quarta (magnifica) stagione che non a caso si conclude con una canzone il cui titolo potrebbe servire come monito al buon Hank Moody: You Can’t Always Get What You Want.