Film

Okja, la banalità del ma(ia)le

Del resto, chi avrebbe mai il coraggio di dire pubblicamente che se ne frega dei cuccioli di foca e che tutte le montagne dovrebbero essere traforate per velocizzare le consegne a domicilio? (Costantino Della Gherardesca, Punto. Aprire la mente e chiudere con le stronzate, Rizzoli Lizard, 2017).

L’equivoco di fondo di ciò che si legge in giro circa Okja nasce da una lettura comune basata sui lacrimoni. Di fronte alla crudeltà della Mirando Corporation nei confronti dei supermaiali, prossimi a diventare succose bistecche, sembra che i più si siano svegliati dal torpore e convertiti al veganesimo alla luce di un film molto chiaro, con un messaggio inequivocabile. Chi scrive, inutile girarci intorno, pensa che quel messaggio lì sia in sostanza un po’ troppo influenzato dai suddetti lacrimoni.

Okja, OGM di sesso femminile, è un supermaialone coccolone che tutti ce lo mangeremmo di baci. La sua amichetta Mija (Ahn Seo-hyun) è una bimba adorabile e i due insieme intrattengono un legame speciale in un incantevole Bosco dei Cento Acri in Corea del Sud. Un altro modo per dirlo sarebbe: Mija è una bimbetta testarda che vive nel nulla più assoluto e sperduto, si è affezionata a un animale che non le appartiene e quando tenta di salvarlo dal suo destino di morte se ne strabatte della causa animalista; rivuole indietro solo Okja. A riprova del suo disinteresse per gli amici animali, possiamo vedere Mija che pesca in modo non proprio ortodosso e adora lo stufato di pollo. Il nonno di Mija, poraccio, deve assistere impotente alla fuga della minorenne, che per di più lo colpevolizza per aver allevato il bestione in cambio (attenzione!) di volgare denaro (pensa un po’), quando invece per lei contano solo l’amore e l’amicizia e non importa se vivono in una baracca nei boschi (ah, quando si era più poveri!).

La Mirando Corporation spaccia per cibi naturali le carni provenienti dai suoi animali ibridi, e questo non è bello. Allo stesso tempo però offre una risposta concreta all’esaurimento progressivo delle risorse mondiali di cibo. C’è poi una banda di animalisti, il Fronte di Liberazione Animale, i cui membri non mangiano quasi niente per avere il minor impatto ambientale possibile, perciò ogni tanto svengono. Il capo (Paul Dano) sembra un bravo ragazzo, è tanto sensibile quando pensa agli animali ma pesta a sangue uno dei compagni che non esegue i suoi ordini come dovrebbe. Durante il film si scopre che la Mirando Corporation, per produrre carne, macella gli animali (oddio!) e che le bestie, sia quelle vere che quelle create in laboratorio, non so se lo sapete, urlano in modo straziante e anche questo non è bello (però la carne, se ti piace, vien fuori  gustosa).

Alla fine della fiera, Mija e la banda di esaltati riescono in minima parte a smascherare la facciata menzognera della produzione Mirando, ma la giovinetta non fa chiudere gli stabilimenti, non combatte il Capitale, non sovverte il Sistema, il suo unico scopo lo ottiene scendendo a patti col nemico: per riavere la maiala deve comprarsela con l’oro che ha rubato al povero nonno e che tanto disprezzava.

Di fronte a Okja si può sostenere quello che si vuole e, se non si è proprio stupidi, ci si rende conto che si potrebbe pensare l’esatto contrario e funzionerebbe benissimo lo stesso. Bong Joon-ho costruisce, senza che lo spettatore se ne accorga, un perfetto quadro relativista della contemporaneità, con un film sapientemente banale e vuoto, con i conti che non tornano mai. Nulla è approfondito, tutto è abbozzato. I “cattivi” come Lucy e Nancy Mirando (Tilda Swinton) o il dottor Wilcox (Jake Gyllenhaal) non hanno quasi nulla di “cattivo”, avvicinandosi agli stereotipi probabili che tutti abbiamo in mente di industriali del capitalismo tecnologico, uomini di spettacolo e di marketing; li riconosciamo come “cattivi” solo perché dall’altra parte c’è una bella bambina asiatica che ci ricatta con il solito bagaglio retorico di virtuosa povertà e demonizzazione del denaro. La componente minima di satira non si capisce bene chi dovrebbe colpire (Gli animalisti? L’allevamento intensivo? Gli scienziati che vanno in televisione?). La fantapolitica è più che di contorno, lo scenario ideato è pressoché identico al mondo reale (tutto il contrario di Snowpiercer). C’è un retrogusto di contenuto e riflessione etica ma non sai qual è; sembrano trasparire in filigrana denunce, sguardi critici sul consumismo, sull’avidità, la decadenza dei costumi, la degenerazione, ma emergono solo nella mente di chi guarda, per automatismo: nel film non c’è niente di esplicito, eccetto l’ovvietà condivisibile degli animali maltrattati, ma niente di più.

Se dopo la visione attuerete cambiamenti nella vostra dieta significa che fin’ora avete vissuto sotto un sasso rotolante. Okja non è un’inchiesta giornalistica, non è un documentario, non riporta dati, non può aprire gli occhi a nessuno, non mostra nulla di reale ma allo stesso tempo è tutto verosimile, nessun punto di vista personale, nessuna invenzione potente, nessuno sforzo di idee (i soldi dominano il mondo, le masse sono cretine, il consumismo dilaga: gli adulti già lo sanno). Per quanto simili alla realtà, i lager dove creature in digitale vengono maltrattate e torturate reggono poco il tentativo di denunciare una pratica vera di cui tutti dovremmo già essere a conoscenza. Puntare il dito e fare una morale così semplice sarebbe troppo ipocrita, e infatti il Bong fa finta di niente e resta inattaccabile: racconta solo una storia. Ed è un bel film per bambini, Okja. Chi cerca la lacrima facile è soddisfatto purché non si racconti un’altra favola, scovando contenuti che non ci sono; chi non la cerca, invece, trova un film meravigliosamente banale su una ragazzetta che va a riprendersi il suo amico animale e paga per riaverlo indietro, tuttavia girato e recitato alla grande, dato che i nomi che ci stanno dentro sanno il loro mestiere.

Oggi (già da un po’ in verità) che i prodotti culturali giustamente abbracciano la complessità e le letture molteplici, trame spiazzanti e sottotrame, buchi e rimandi, Okja ci evita per una volta di pensare e scrivere: “Un’opera che non trova delle risposte, pone solo delle grandi domande” perché qui di domande non v’è traccia e di risposte ancora meno.

Matteo Macaluso

Nato d'uomo e di donna classe 1993. La natura gli dona una strana erre moscia con cui un giorno conquisterà le masse. Lettere Moderne a Genova. Quando si parla di western perde il senso dell'umorismo. Crede in un solo dio: enricoghezzi.
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