Una strada da percorrere, un giovane scrittore e il racconto di un vuoto ricolmo di tutta la rabbia del mondo.
A quel tempo danzavano per le strade come pazzi, e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessano, perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno «Oooooh!»
Ci sono film con i quali non è giusto essere oggettivi, film che non sono da giudicare per quello che sono, ma per le emozioni che trasmettono. Cosa intendo? Intendo che ci sono pellicole con le quali non riesco ad essere critico, non riesco a soffermarmi sui difetti (pur evidenti), ma passo oltre, perché quello che vedo mi piace di più di quello che dovrei vedere. Ci sono film come On the road, che mettono in scena uno dei miei romanzi preferiti e lo fanno con tutta la forza e la veemenza di quell’urlo (Urlo è anche il titolo del famoso poemetto di Allen Ginsberg) di liberazione che è stato quel libro.
Nel 2012 esce nelle sale il film del regista brasiliano Walter Salles che, dopo una produzione travagliata, riesce nel difficile compito di mettere in piedi la trasposizione di uno dei libri più infilmabili (aggettivo orrido, ma non me ne vengono altri) che Mamma Letteratura ricordi. Voglio dire, come fai a mettere in scena un maxi rotolo di fogli appiccicati, scritti in due settimane da un autore in piena crisi isterica, strafatto di benzedrina per tenersi sveglio e non smettere mai, non smettere mai di battere furiosamente sui tasti, per tenere duro così come tengono duro le sue frasi, che non si arrendono al punto fermo, ma saltano avanti e procedono ancora?
Lo dico adesso e mi libero di queste domande scomode: è meglio del libro? Risposta: assolutamente no. Ne tradisce lo spirito e ne distorce il messaggio? Nemmeno. Semplicemente questo è, a mio avviso, il miglior film che è possibile trarre da On the road. Assolutamente non un capolavoro, non un cult, non resterà negli annali, andrà probabilmente dimenticato, ma (udite, udite) non importa: chi ama Kerouac ci si ritroverà.
Il cinema non deve essere per forza una costellazione di luccicanti stelloni impomatati da Walk of Fame, oppure paludi di sterco caprino senza nulla in mezzo. Esistono film mediani, film fatti per emozionare, in modo semplice, senza l’assurda pretese delle 5 stelle sul Morandini: sono film che vogliono raccontare una storia e questa trasposizione lo fa magnificamente.
Sam Riley è Sal Paradiso, personaggio-maschera dietro al quale si nasconde lo stesso Kerouac, che trasferisce in lui tutta l’insicurezza e la tragedia di un giovane scrittore che vuole emergere, che ha ambizioni enormi e che è stufo del piattume grigio e insignificante di una città stantia, dove ogni angolo è noto e la birra ha dappertutto lo stesso sapore. Sal per realizzarsi deve andare, non sa dove, ma ha bisogno di mettersi in moto e l’occasione gli si presenta quando l’amico Carlo Marx (alter ego del già citato Allen Ginsberg) gli fa fare la conoscenza di Dean Moriarty. Dean è un ex galeotto, apprendista filosofo, rapinatore dedito a ogni sorta di vizio, il miglior pilota di tutti gli stati Uniti alla ricerca del padre perduto, smarrito nelle gelide notti di Denver. Un personaggio degno di un romanzo Ottocentesco, dai tratti sempre sfumati e interpretato meravigliosamente da Garret Hedlund. Dean trascina Sal in “quella parte della sua vita che potremmo definire sulla strada”, ovvero un lungo viaggio coast to coast attraverso un’America ancora vergine, un’America per certi tratti riconoscibile nel mito del West e della frontiera. Insieme a loro va Marylou, la fidanzata di Dean, interpretata da una rivedibile Kristen Stewart, che è (come sempre) tra le note più dolenti del film.
Il film si muove senza una vera e propria trama, ma lascia tutto quanto in mano ai protagonisti, alla loro follia, alla loro fame di vita, di morte, di miracoli, di sballo e di jazz, perché incarnano una generazione che non ne può più dei suoi padri (entrambi i protagonisti principali vivono senza un padre, uno morto l’altro disperso), quegli stessi padri che avevano trascinato l’America nel macello delle guerre mondiali e che le stavano dando il colpo di grazia con il conformismo, il maccartismo e la fobia esasperata per ogni comportamento che deviasse da un codice prestabilito.
On the road racconta di coloro che sputarono in faccia al perbenismo, morsi dal desiderio di qualcosa di più che una vita banale e incasellata. Attraverso le parole scritte su taccuini lerci con matite smangiucchiate, le mille sigarette, la perenne irresponsabilità e i viaggi insensati, cerchiamo di penetrare il mistero di una voglia di vivere che potrà sembrare bislacca, ma che – prima o poi – ha morso ognuno di noi: la voglia di fregarsene e andare, la voglia di evadere dagli schemi e abbandonarsi alle sensazioni, senza più regole né direttive.
In sostanza On the road è un film che non può e non deve essere raccontato, ma visto (e letto) perché tenta di tirare fuori quella voglia di incosciente giocosità e disperazione che ognuno di noi cela all’interno: un grido alla libertà, quindi, un grido all’insensatezza di una vita che ci vogliono far credere già decisa a tavolino, ma che con uno zaino in spalla e un quaderno bianco può e deve essere vissuta altrimenti.
L'Asborno nasce nel 1991; le sue occupazioni principali sono scrivere, leggere, divorare film, serie, distrarsi e soprattutto parlare di sé in terza persona.
La sua vera passione è un'altra però, ed è dare la sua opinione, soprattutto quando non è richiesta. Se stai leggendo accresci il suo ego, sappilo.