Film

Once upon a time in Hollywood: c’era una volta il cinema

È il momento di confessare: quanti di voi hanno organizzato le proprie vacanze in funzione dell’uscita di Once Upon a Time in Hollywood? Non sono nella posizione di giudicarvi, sono colpevole. Sono scappata a vederlo all’estero prima che qualcuno si azzardasse a doppiarlo. Il nono film di Quentin Tarantino, C’era una volta a… Hollywood, sbarcherà trionfalmente nelle nostre sale il 19 settembre (martoriato in qualsiasi sfumatura linguistica). Per questo farò la brava: la recensione che segue è spoiler free, immacolata, irreprensibile. Accomodatevi fiduciosamente in poltrona a leggere con una tazza di caffè lungo e una sigaretta Red Apple.

Once upon a time in Hollywood: gli eroi, i cattivi, la fiaba

Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) è una star decaduta del Western e Cliff Booth (Brad Pitt) è la sua controfigura, il suo tuttofare, il suo migliore amico. Lo dico adesso così ci togliamo il pensiero: per tenere in piedi il film basterebbero loro. Hanno entrambi raggiunto la maturità artistica e la direzione d’attori di Tarantino non sbaglia, non sorprende e regala conferme. La coppia sullo schermo è inedita ma funziona, gioca con le diverse fisicità di due volti troppo distinguibili e iconici nella cultura pop per non strapparci un (ricercato) sorriso quando vengono trattati come fossero sosia.

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Dalton, cercando disperatamente di tornare sulla cresta dell’onda, si muove in una Los Angeles di fine anni ’60 riprodotta con precisione ossessiva: Once Upon a Time in Hollywood è un grande diorama, un collage di luoghi e locandine, un vero e proprio parco giochi in cui il cinefilo può perdersi a caccia di citazioni esplicite, autocitazioni, inquadrature-citazione. Quentin Tarantino, nelle scenografie ricche e sature di Once Upon a Time in Hollywood, continua a raccontare il suo amore per la settima arte e a condividerlo con l’entusiasmo, la gioia e la passione che hanno sempre contraddistinto il suo cinema.

Ma come in ogni fiaba meravigliosa, tra le pieghe di quella Hollywood dorata striscia un antagonista. Mentre ai personaggi che popolano la Family, la sua comune hippy, viene dedicato ampio spazio in alcune delle sequenze più tese del film; Charles Manson compare sullo schermo per pochi minuti, quasi in sordina, in una scena “neutra”. E riesce comunque a raggelare. Sta preparando il terreno per il celebre massacro dell’8 agosto 1969, in cui perse la vita anche l’attrice Sharon Tate, moglie di Roman Polanski e incinta di otto mesi.

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Once Upon a Time in Hollywood gioca con gli eventi con la libertà tutta tarantiniana che è il tratto distintivo di Bastardi senza gloria, regalando nel finale una dolcezza sorprendente e degna, appunto, di una fiaba.

Le aspettative disattese

Ogni volta che esce un film di Quentin Tarantino un piccolo cinefilo si sveglia e salta su al grido di “Non è il miglior Tarantino!”, e questo è fatto noto. Fate un po’ come vi pare, voi e i vostri piccoli cuori neri. Per me è un autore con una coerenza tematica e stilistica distintiva, che dall’ormai lontano 1992 trova modi di rinnovare il linguaggio del cinema mantenendo però un’impronta fedele. Mi sembra futile pontificare su “quale sia il miglior Tarantino”: non ha mai sbagliato un film.

Anche su questo Once Upon a Time in Hollywood ho sentito strane e discutibili affermazioni. La Palma d’Oro per la critica più stupida va senza dubbio a: “Ecco, Tarantino si è sposato e ora si è rammollito.” Giuro, l’ho letto veramente. Il cuore di questa critica sta nel fatto che, dopo averci abituato a orge di sangue, nel suo nuovo lavoro Tarantino sembra relegare la rappresentazione esplicita della violenza solo alle ultime sequenze, e con un registro leggermente più sobrio del solito.

Questo gioco continuo al gatto col topo con le aspettative dello spettatore per me è invece uno dei grandi elementi di genialità del film. Avete presente la scena dello strudel alle mele in Bastardi senza gloria? Ecco, Once Upon a Time in Hollywood è metaforicamente un trattato della filosofia dello strudel alle mele.

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Tarantino porta all’eccesso e al parossismo la lezione hitchcockiana sul depistaggio dello spettatore, costruendo lunghe sequenze cariche di tensione come quella dell’arrivo di Brad Pitt alla comune. Il film procede, scusate l’allegoria colorita, per coiti interrotti e pratiche fetish fino al liberatorio annuncio televisivo “Ecco finalmente quello che tutti stavate aspettando!”: la fatidica notte dell’8 agosto. La promessa, e la premessa, su cui si è basata l’intera campagna di promozione del film: il massacro ad opera della Family di Manson.

Un invito al gioco

Chi si trova deluso o spiazzato davanti a un film del genere secondo me non ha pienamente a fuoco l’elemento ludico che da sempre caratterizza la poetica di Tarantino. Prima di essere regista e autore, Tarantino è fan e cultore del cinema, appassionato, hooligan. Ogni inquadratura è una strizzata d’occhio a qualcosa che ama e non si limita a portare sullo schermo una storia, a piazzarti lì seduto e dire “Toh, guarda.” Ti tira per la manica, ti invita a cogliere i riferimenti e a godere della bellezza di una forma d’arte che ama.

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Tarantino è l’amico molesto che in sala ride più forte degli altri. È il vicino di posto petulante che di tanto in tanto ti tira una gomitata e dice “Forte questa! L’hai capita?” e anche se fai sì con la testa ti attacca una pezza. Nei suoi lavori c’è tutta la gioia e il gusto di qualcuno che sta facendo esattamente quello che ama fare, e in questo senso Once Upon a Time in Hollywood si può considerare un manifesto della sua filmografia.

Quentin, se mi leggi sappi che TVB, e ti chiedo scusa per aver ceduto anch’io alle logiche bastarde del SEO che impongono a tutti, pure alla Sony su YouTube, di eliminare i tre puntini di sospensione da Once Upon a Time in… Hollywood per indicizzare decentemente l’articolo. Umilmente, perdonami.

Margot Robbie e la polemica sul sessismo

Il trend degli ultimi due anni, sull’onda del movimento Me Too, è accusare i registi uomini di sessismo. Sia giustamente che a sproposito. Nemmeno Tarantino si è salvato: a maggio, durante una conferenza stampa, una giornalista del New York Times gli ha chiesto ragione delle poche battute affidate a Margot Robbie, che in Once Upon a Time in Hollywood interpreta Sharon Tate. Lui ha risposto semplicemente “Rifiuto questa ipotesi.”

Ho aspettato di vedere il film per esprimere un’opinione e devo dire che anch’io “rifiuto questa ipotesi.” È vero che la Robbie rimane in filigrana rispetto all’azione principale dei due protagonisti, ha pochissime battute. Sharon Tate è quasi un personaggio muto, una presenza luminosa e sorridente, e poi radiosa nella gravidanza, che dall’inizio sappiamo essere vittima sacrificale.

Pur non parlando quasi mai, però, la sua presenza in scena è tutt’altro che marginale: a lei, alla sua sola interpretazione, alla sua espressività, viene affidata una delle scene che costituiscono le arcate di volta del film. A un certo punto Sharon Tate, dopo qualche indugio, decide di entrare in una sala del centro a vedere il suo ultimo film. È sola, si toglie le scarpe e appoggia i piedi sul sedile davanti, guarda lo schermo e ride. Osserva e ascolta le reazioni del pubblico alle scene comiche che la vedono protagonista, senza essere riconosciuta. Un momento perfetto, slegato dalla narrazione, che si fa portavoce di tutta la densità dei contenuti di Once Upon a Time in Hollywood.

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Non c’è traccia di sessismo. Come non c’era traccia di sessismo, nonostante quanto purtroppo mi è capitato di leggere in passato, nel trattamento che subisce Daisy in The Hateful Eight. A maggior ragione se una battaglia ci sta a cuore dovremmo evitare di puntare il dito a sproposito, perché la credibilità di un movimento ci mette niente a stamparsi contro un iceberg e fare la fine del Titanic.

Tirando le somme

Non il miglior Tarant… scherzo. Film monumentale, film manifesto di un regista che non rinuncia a innovare senza tradire se stesso. Cast strepitoso, colonna sonora da urlo, e una delicatezza in certi snodi del racconto che non vedevamo da Kill Bill Vol. 2.

Tarantino si conferma Tarantino e ci regala un piccolo gioiello, dal sapore nostalgico ma dal cuore di panna, che vi farà uscire dalla sala un po’ più ricchi e motivati a credere fino in fondo nei vostri sogni.

Sara Boero

Sua madre dice che è nata nel 1985, a lei sembrano passati secoli. Scrive da quando sa toccarsi la punta del naso con la lingua e poco dopo si è accorta di amare il cinema. È feticista di Tarantino almeno quanto Tarantino dei piedi. Non guardatele mai dentro la borsa, e potrete continuare a coltivare l'illusione che sia una persona pignola.
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