
Paura e delirio, non solo a Las Vegas
Partiamo dal presupposto che girare un film tratto da Paura e Disgusto a Las Vegas di Hunter Thompson (nella traduzione paura e delirio del titolo Fear and Loathing in Las Vegas si concentra tutto l’odio di noi italiani per le cose ben fatte) era la classica impresa impossibile. Mi infilo gli occhialetti da pornosegretaria e vi spiego perché.
Hunter Thompson (RIP Hunter, insegna agli angeli a sballarsi con l’elio), incredibili a dirsi, era un giornalista. Collaborava con testate che lo spedivano a scrivere resoconti di eventi sportivi. Paura e Disgusto a Las Vegas doveva essere la cronaca del rally Mint 400 ed è diventato una pietra miliare della letteratura contemporanea dando origine al gonzo journalism (per la serie il beat è morto, viva il beat!).
In Italia lo chiamiamo giornalismo paraculo, o più semplicemente non lo chiamiamo: non è che abbia esattamente attecchito qui da noi. Detto in parole povere, gonzo journalism significa che l’evento da documentare passa in secondo (terzo, quarto, quinto…) piano rispetto all’esperienza soggettiva del cronista, alla sua percezione della realtà e alla cornice storica. Diventa un pretesto, un momento come un altro per condividere qualcosa che va decisamente oltre.
Paura e Disgusto a Las Vegas, con la labile scusa di un rally, parla dell’infrangersi del sogno americano sul groppone della generazione che aveva vissuto la grande onda della rivoluzione culturale, e che si ritrova improvvisamente con in tasca un pugno di acidi e ben poco idealismo. Lo fa attraverso gli occhi di Hunter, aka Raoul Duke, aka un rimastone degli anni ’60 con una dipendenza da qualsiasi sostanza psicotropa conosciuta all’uomo. Le droghe fomentano o allentano costantemente il suo livello di paranoia, amplificando e distorcendo un senso di alienazione dalla società comunque ben presente. Il romanzo procede a balzelli sulla sinusoide dell’ansia e del disgusto nei confronti dei mostri quotidiani del tessuto sociale americano. Ci ritroviamo invischiati in un vero e proprio trip mentale, con una trama labile e sempre sul punto di schiantarsi al suolo al primo vuoto d’aria: il purgatorio della Mint 400 cede il passo all’inferno del Circus Circus e ai paradisi artificiali, senza neanche darvi il tempo di dire “LSD”.
Ma Terry Gilliam è completamente pazzo. A Terry Gilliam i film impossibili piacciono: se li va a setacciare nei pagliai col metal detector e non è raro ritrovarlo impastoiato come una zanzara preistorica nella resina di pellicole che non vedranno mai la luce (vi dice qualcosa il titolo Lost in La Mancha? Senza calcolare gli episodi ascrivibili a sfiga, tipo che ti muore il protagonista e va tutto a schifo). Con Paura e delirio a Las Vegas Terry va all in, convocando per il cast due scoppiati del calibro di Benicio del Toro e Johnny Depp (che era una discreta canaglietta, prima di clonarsi in una versione per famiglie. E che infatti diventa subito compagno di merende di Hunter, durante la lavorazione del film – ah, i pomeriggi passati a far esplodere taniche di benzina nel deserto: Stanislavskij my ass).
Non si sa come, ma Terry il film lo porta a casa senza che nessuno muoia. E che film. Si butta sull’unica strada percorribile per raccontare una storia del genere: quella della sperimentazione visiva. I trip allucinatori del protagonista vengono condivisi dallo spettatore, abbagliato da una fotografia acida e coloratissima e tenuto costantemente sull’attenti da scenari che si deformano in modo angosciante grazie alla computer grafica. La moquette si muove. Gli avventori del bar dell’hotel sono pericolosi rettili mutanti. Centinaia di pipistrelli avvolgono in pieno deserto un’auto in corsa. Lo schermo restituisce l’atmosfera claustrofobica, surreale e grottesca della Las Vegas del romanzo, traducendo in maniera originale e impeccabile l’intenzione più che il dettaglio.
La bruttezza, la deformità, i conflitti della società americana degli anni ’70 visti dagli occhi di qualcuno che, in quella specie di Disneyland nazista postapocalittica, cerca semplicemente di sopravvivere (con qualche aiutino chimico). E ci riesce (ma questa è un’altra storia) spassandosela in grande stile fino a 67 anni: poi decide che la vita gli puzza e nel 2005 si spara un colpo in testa. Non sarebbe stato male averlo intorno ancora per un po’.
Io vi caldeggio sia il libro che il film ma per favore, per favore fate i bravi. Paura e delirio a Las Vegas non è il classico sabbah degli scoppiati da t-shirt. È l’inferno che prende vita, è il vostro peggiore incubo. È il piede addormentato che al mattino non si muove. È l’ingranaggio rotto, l’insetto invisibile che vi ronza nell’orecchio, il deja-vu, la certezza irrazionale che il cavo dell’ascensore di staccherà, la sensazione di essere osservati.
È guardare la propria faccia allo specchio e non riconoscerla. Non è paura e delirio: è paura e disgusto.
NdA: questa è la prima recensione di Paura e delirio a Las Vegas in cui non compare la parola “lisergico”. Ops!