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Perché non c’è paragone tra le prime due stagioni di True Detective?

Uno show rivoluzionario, una prima stagione da urlo e poi una brusca frenata nella seconda: perché il confronto tra le due stagioni di True Detective è impietoso?


Eccovi la nostra recensione della prima, fantastica stagione


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Andiamoci piano…

Dire a prescindere che la seconda stagione di True Detective sia brutta è un’eresia. Ma di quelle gravi, di quelle che ti appendono per i pollici e fanno divertire il loro scudiscio. “Andiamoci piano, andiamoci molto piano”.

Dire invece che la seconda stagione di True Detective sia nettamente inferiore alla prima, beh, signori, questa è palese realtà. Quando uno show inizia come è iniziato True Detective, con quella forza espressiva, quei dialoghi, quei personaggi, quella regia, quel modo di concepire il poliziesco/thriller/noir, tu spettatore non puoi (e non devi) abbassare le aspettative. Ti aspetti “il meglio del meglio del meglio”.

Purtroppo però, per quanto riguarda la seconda, rimane sì un’ottima serie, ma vista in controluce alla prima sbiadisce e diventa carta velina. Perché?

I personaggi

truedetectiverustmartyNella prima Harrelson e McConaughey interpretano due personaggi che sono a modo loro due evasi dalla realtà. Rust è ancora smarrito tra le nebbie di un passato più che oscuro, Marty si circonda di bugie che racconta più a sé stesso che agli altri, bugie atte a nascondere la verità, cioè che è un alcolizzato, infedele, incazzoso, debole ometto.

Nella seconda invece abbiamo un più ampio spettro umano con tre diverse tipologie di poliziotto (Farrel, McAdams, Kitsch) e un boss della mala che deve tenere insieme il suo impero (Vaughn). A differenza della coppia Marty-Rust, però, i quattro della seconda stagione rispondono a caratteri già visti, già analizzati (il piedipiatti alcolizzato e corrotto, la portabandiera del girl-power che mette in riga i colleghi, il giovinotto ombroso in fuga da un passato misterioso). Mentre nella prima i due sono persone, descritte a tutto tondo, con un background che si amplia sempre più, i personaggi della seconda rispondono bene o male a delle funzioni, ognuno di loro ha un suo ruolo.

In questo modo va a crollare il primo e più importante legame che lo spettatore ha con i personaggi: quello che lo fa affezionare a personaggi-persone, plausibili, veritiere, deboli, ricche di chiaroscuri. I protagonisti della seconda sono personaggi-personaggi, figure apparentemente interessanti ma poco spesse, tanto che dopo poco (personalmente direi a parte Ray Velcoro) ti stufi di loro.

Altro difetto?

Mentre nella prima i protagonisti assoluti sono due e in 8 episodi viene detto ed esplorato quello che c’era da dire, nella seconda i protagonisti diventano quattro. Passare da due a quattro ha fatto certamente male allo show: lo sceneggiatore Nic Pizzolatto non è riuscito a far sì che personaggi e caso venissero esplorati adeguatamente, tanto che tutto alla fine si è risolto in un gran pastrocchio ed è stato costretto a raddoppiare la puntata finale che, invece dei soliti 50 minuti, ne dura circa 90.

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La sceneggiatura

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Mentre nella prima la narrazione del caso e lo sviluppo dei personaggi procedeva di pari passo, in modo equilibrato, nella seconda Pizzolatto si è fatto prendere la mano: come già detto, ha raddoppiato il numero dei protagonisti principali e ha imbastito un caso molto più intricato, così intricato che in molte sue fasi è veramente ostico da seguire.

Ci si trova di fronte a una ridda confusa di nomi, situazioni, persone che appaiono, scompaiono e vengono date per scontate. Molte scene sono difficili da seguire perché lo spettatore non riesce a stare dietro al filo degli avvenimenti e di conseguenza perde interesse.

Il finale poi è decisamente insoddisfacente e deludente: se molti si sono lamentati per la semplicioneria del finale della prima stagione (io non sono d’accordo) non vedo come non ci si possa lamentare del finale paraculo della seconda.

 

 

Le location

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La Louisiana della prima stagione è senza ombra di dubbio la miglior location/ambientazione di tutte le serie tv che ho visto, anche meglio del New Mexico di Breaking Bad. Ha carattere, carisma, si sposa perfettamente al clima decadente della storia ed è un luogo dove è facile perdersi così come spesso vanno alla deriva i due protagonisti. Si tratta di un luogo oscuro, intricato, selvaggio, una landa desolata dove si possono nascondere mostri di palude, bifolchi, puttane e cadaveri straziati, dove la religione è un mantra da lavaggio del cervello e dove la polizia può arrivare solo fino a un certo punto.

La California della seconda stagione invece è un luogo già visto e rivisto, ripreso certamente con grande perizia, ma oltre al calore degno di un forno emanato dalle distese d’asfalto non ci trasmette niente. E’ una Los Angeles come le altre, in cui la regia si sofferma molto sugli snodi autostradali come leit motiv, ma che oltre alla bellezza dell’inquadratura ben fatta non dice molto di più.

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La regia

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Cary Joji Fukunaga, regista della prima stagione

Ma non solo i personaggi sono troppo poco approfonditi, la trama ingarbugliatissima e l’ambientazione ha poco mordente, ma anche la regia risente di un continuo cambio di mano.

Mentre nella prima avevamo solo Cary Joji Fukunaga che dava la sua visione personale di quello che – alla fin fine – era un maxi film di circa sei ore e mezza, nella seconda stagione gli episodi sono affidati a registi differenti (7 in tutto).

Il cambio di regia si aggiunge a una serie di problemi che hanno tutti in comune il troppo, l’esagerazione nei confronti di una seconda stagione gonfia oltremodo e la cui pesantezza non passa affatto inosservata anche al pubblico amico.

 

 

 

 

La Questione del Focus

g0051Ma la differenza fondamentale, quella che fa davvero pendere l’ago della bilancia è quella che io definisco Questione del Focus: la prima stagione – checchè se ne dica – è puntata quasi esclusivamente sui due protagonisti e il caso passa in secondo piano, non è altro che un MacGuffin per andare ad esplorare le loro reazioni, le loro nevrosi, i loro angoli bui. E’ una stagione che punta tutto sulla scrittura dei dialoghi, mai banali, sulla regia (la scena del ghetto nero in piano sequenza, la scena del ghetto nero in piano sequenza!). Mentre la seconda non si capisce bene su cosa voglia focalizzarsi: se su un caso troppo mastodontico per essere gestito in soli 8 episodi, se su quattro personaggi che si rimpallano l’attenzione dello spettatore senza risultare veramente profondi come Marty e Rust, se su una regia un po’ sconclusionata o un’ambientazione che ormai sa di stantio.

The show must go on

In conclusione?

Speriamo solo che la brusca frenata di critica e pubblico data dalla seconda stagione (che se vista in senso univoco e senza fare paralleli rimane comunque una grandissima serie) non comporti la fine assoluta di uno show che ha ancora tanto da dire. Se dovessi fare la wish-list per una ipotetica terza stagione chiederei questo:

  • ristabilire i golden boy Pizzolatto/Fukunaga
  • scegliere un’ambientazione figa, originale e che non sappia di già visto
  • non dare corpo a un caso gargantuesco del quale poi non si riescono a districare tutti i fili
  • stabilire il giusto numero di personaggi: se devono essere quattro si deve mixare bene l’esigenza strettamente narrativa con quella di approfondimento dei personaggi, oppure – come accade nella prima – usare l’una per far procedere l’altra.

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Federico Asborno

L'Asborno nasce nel 1991; le sue occupazioni principali sono scrivere, leggere, divorare film, serie, distrarsi e soprattutto parlare di sé in terza persona. La sua vera passione è un'altra però, ed è dare la sua opinione, soprattutto quando non è richiesta. Se stai leggendo accresci il suo ego, sappilo.
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