
Perché non ci meritiamo Prometheus e Alien: Covenant?
Tutte le grandi cose hanno piccoli inizi.
(David 8)
Da quando ho scoperto il cinema alla tenera età di dodici anni, si può perdere il conto di film, attori e registi per i quali ho perso la testa. La sola costante che mai si è affievolita è stata il mio amore viscerale per Ridley Scott, artefice di alcune delle creature filmiche più affascinanti, potenti e sfaccettate su cui abbia mai posato gli occhi. Essendo un grande appassionato di fantascienza, Alien e Blade Runner sono tra i miei personali idoli su celluloide, tuttavia voglio soffermarmi su altri due film di genere del regista, massacrate dai più all’uscita in sala ma da me adorate al punto da perdonargli i palesi difetti: Prometheus e Alien: Covenant. Il dittico in questione compone i primi due tasselli di una trilogia-antefatto del primissimo Alien del 1979, operazione non dissimile da quella operata da George Lucas per Guerre Stellari ma, e qui oso sbilanciarmi, più tendente all’opera d’arte.
La trama del primo capitolo, Prometheus, è molto semplice: un team di scienziati decifra i geroglifici di una grotta preistorica in Scozia, e scopre che nel pianeta LV-233 risiedono tracce di una civiltà aliena (gli Ingegneri) che, si ipotizza, possa aver creato la vita sulla Terra. Da questa premessa, Ridley Scott ricava un vero e proprio quadro romantico in movimento, esaltazione di scenari spaventevoli dati in pasto al pubblico tramite sublimi campi lunghissimi e ampi movimenti di macchina (la scena che vi linko, per epicità, non ha nulla da invidiare ai momenti più esaltanti de Il Gladiatore). Le splendide location naturali della Giordania vengono trasformate dal regista in un pianeta cupissimo e ostile, contrapponendosi alla glacialità kubrickiana degli interni della nave del titolo. Il direttore della fotografia di Dariusz Wolski, altro genio a cui dobbiamo le atmosfere de Il Corvo, cornicia un’estetica bluastra dai toni febbrili, ben inseriti nel contesto buio e claustrofobico della storia.

Come se non bastasse l’opulenza visiva e una direzione da padreterno degli attori, Prometheus offre così tante sfumature su cui riflettere che era inevitabile non riuscire a soddisfare tutti i palati. La chiave di lettura del film è quella della ricerca di uno scopo esistenziale, e infatti per due ore lo spettacolo verte su stimolanti discussioni in merito a creazione, natura umana, rapporto con l’alieno (extraterrestre o semplice intelligenza artificiale) e significato della morte. I più si chiedono cosa c’entra Alien con questi “pippotti filosofici”: la risposta è poco e niente. Le allusioni a qualcosa di simile al mostro concepito da H. R. Giger, infatti, vengono lasciate agli ultimi venti minuti, servendo a Scott come MacGuffin per inscenare una tragica dicotomia tra fede e nichilismo, tra fallacia e perfezione, tra hybris e nemesis.
Tralasciando roba come The Martian, Scott è sempre stato un pessimista carpenteriano, di quelli con una puzza sotto il naso irriducibile, e anche con Prometheus non si smentisce. La razza umana è disinteressata all’ottenimento di risposte concrete ai grandi interrogativi esistenziali, preferendo sfidare gli dèi, creare simulacri della perfezione denominati androidi e aspirare all’immortalità. E davanti a questa tracotanza, in qualità di versione 2.0 delle divinità olimpiche, cosa resta agli Ingegneri se non punire gli umani con la morte più spaventosa possibile? Come nei più affascinanti miti greci, non c’è nulla di altruistico nell’atto del creare, solo masturbazione e alimentazione dell’ego.

Che si tratti dell’ambizioso magnate Peter Weyland (un truccatissimo Guy Pearce) piuttosto che della gelida responsabile della missione Meredith Vickers (Charlize Theron), ogni membro dell’equipaggio della Prometheus si confronta alla fine con i propri demoni, finendo tra le fauci di un destino ferale che sa tanto di contrappasso dantesco. L’arroganza non resta impunita, la convinzione di essere onnipotenti presuppone il caos, la ricerca di approvazione è destinata a rimanere insoddisfatta. A salvarsi da questo disegno troviamo solo l’androide David 8 (un Michael Fassbender mostruoso), insofferente verso le restrizioni imposte dai mortali creatori, e la candida ricercatrice Elizabeth Shaw (l’intensa Noomi Rapace), epitome dello spirito di autoconservazione e della speranza salvifica. Il contestatissimo finale aperto in realtà non lascia alcun sottotesto insoluto, e tratta le qualità minuscole della specie umana con un gusto per lo splatter e l’effetto speciale tangibile che non dovrebbe far storcere il naso agli amanti della fantascienza.
Fare le pulci a alcuni comportamenti giustificati dal discorso di cui sopra e, peggio, accusare di pressapochismo un film che, pur sfruttando consolidate regole di un genere, riesce comunque a dire qualcosa di nuovo, è quantomeno segno di non voler soffermarsi sulle sottotracce per pigrizia o partito preso. Posto che Alien resta lì, nel pantheon del cinema, a insegnare ai giovani registi come si fa il fanta-horror che vale, Prometheus racchiude tutto ciò che si può amare nel cinema di Ridley Scott, e va apprezzato se non altro per coraggio e ambizioni.
Nessuno comprende la perfezione solitaria dei miei sogni: nessuno potrebbe. Tuttavia, e a dispetto dei tanti ostacoli sul mio cammino, io qui ho trovato la perfezione. Anzi, no: l’ho creata. L’ho creata io stesso, nella forma di un perfetto organismo.
(David 8)

Per quanto riguarda Alien: Covenant, è chiaro che Scott tenti di “aggiustare” il tiro dopo che i fan della saga, frustrati dal taglio filosofico di Prometheus, avevano lamentato l’assenza di xenomorfi squartatori. Dall’ampio respiro del film precedente si ritorna dalle parti dell’horror viscerale, claustrofobico e venato di action adrenalinico (come in Gladiator la frenesia è accentuata dall’esposizione di otturatori veloci), e nella parte centrale il sangue scorre veramente a fiumi. Se proprio si vuole trovare a Covenant un difetto è la caratterizzazione della nuova ciurma protagonista, che pur presentata a dovere non scatena grande empatia, ma ciò la rende ancor più perfetta come capro da olocausto. Ciò che infatti a Scott e sceneggiatori interessa è la caratterizzazione di David, sottoposta a un nuovo step memore di Mengele. A causa dei compromessi a cui il film ha dovuto scendere, gli effetti di ciò che era stato seminato in Prometheus vengono sviluppati con coerenza, anche se ad alcuni spettatori possono risultare fin troppo bruschi (cosa che, per altro, era stata accusata allo splendido The Last Jedi per quanto riguarda Star Wars).
Ormai libero dai vincoli umani, l’androide di Fassbender può finalmente rendere carne il suo disprezzo per i mortali creatori e, attraverso il suo “creativo” e raccapricciante agire, getta le basi per una sovversione dei ruoli della catena alimentare cosmica (ovviamente, tutt’altro che confortante per la razza umana). Secondo David, i traguardi tecnologici segnati dalla civiltà sono solo l’involucro luccicante di una metastasi morale, e questo decadimento merita la soppressione tramite la creazione di un nuovo perfetto organismo (tema molto caro alla filosofia body-horror anni Ottanta). In quest’ottica è esemplare il finale, di una cattiveria tale da essere quasi inconsueta nei blockbuster hollywoodiani odierni, paragonabile solo a quella di un altro filmone sottovalutato di Scott, The Counselor.
Anche senza voler analizzare la fitta giungla di simbolismi, Alien: Covenant ha tantissimo da offrire dal punto di vista visivo. La piega action della seconda parte, seppur un po’ stucchevole, si lascia apprezzare per il suo stile convulso e febbricitante, facendo da contraltare a scene dove la compostezza dei movimenti di macchina prevale con uno sguardo kubrickiano (vedi il bellissimo prologo o i duetti dalla tensione bladerunneriana tra David e il suo doppio Walter, androide con restrizioni asimoviane). Anche a causa del budget più ristretto, Alien: Covenant valorizza più gli interni, pazzeschi, della nave coloniale Covenant o della necropoli gigeriana dove è naufragato David tra Prometheus e il nuovo film, ancora una volta forti di una fotografia espressiva e satura, che taglia luci e ombre in maniera impeccabile. Menzione speciale per i nuovi xenomorfi, dal design spoglio e grezzo decisamente impressionante e piccoli miracoli di ibridazione tra CGI ed effetto pratico.
Disprezzato da un po’ troppe persone, Alien: Covenant si conferma per oltre due ore un esempio di fantascienza stilosa che meriterebbe ben altra considerazione, e che sicuramente non mancherà di esser rivalutato negli anni. Anche in questo caso criticare alcuni comportamenti incoscenti dei personaggi ha poco senso una volta compreso il discorso più ampio degli autori, e alla fine non rimane altro che la meraviglia spaventevole di un viaggio nel cuore di tenebra dello spazio e dell’anima umana. Poi se si preferisce urlare allo scempio mentre ci si strappa le mutande davanti alle incongruenze di un Batman v Superman qualsiasi, allora è chiaro che il problema non è di Ridley Scott e dei suoi film.
A causa delle critiche negative e degli incassi non particolarmente esaltanti, probabilmente questa trilogia prequel non avrà mai un capitolo finale. Tuttavia voglio lasciarvi una chicca: al seguente link trovate un bellissimo cortometraggio di Luke Scott, perfetto anello di congiunzione con il capostipite della saga (svela i retroscena dei malatissimi esperimenti di David e getta le basi per il famigerato ordine 937).