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Perché Parasite è uno dei film più importanti degli ultimi 10 anni

Ultimamente, sono stato piuttosto lontano dalla scrittura.

In questo periodo, però, mi è capitato più volte di andare al cinema, e, devo dire, tra tutto ciò che ho visto, il vero trigger che mi porta a esprimere i miei non richiesti pensieri in questo momento, è Parasite, di Bong Joon-ho, di cui, tra l’altro, è già presente un articolo qui sul nostro sito.

Tuttavia, non mi sento all’altezza di farne una recensione, che, oltre che non richiesta, risulterebbe anche essere pretenziosa, dato che il film ha già, anche, vinto la Palma d’oro a Cannes. Sarebbe oltretutto anacronistico iniziare a parlare di capolavoro, dato che è stato distribuito praticamente ieri; però l’opera è un perfetto oggetto di studio. Il mio intento è, dunque, parlarvene, cercando di non gettarmi in vaticinazioni filosofiche su quanto la lotta di classe sia rappresentata alla perfezione. Ecco, è un termine che detesto, “lotta di classe”… e, penso, lo detesti anche chi ha girato e scritto il film,

Inizio proprio raccontandovi di chi ha scritto il film, e, soprattutto, di dove lo abbia ambientato. Bong Joon-ho è sudcoreano. Ha all’attivo produzioni meravigliose: un poliziesco come Memories of a Murder, monster movie come The Host, ed ha, inoltre, lavorato in america con quel gioiello di Snowpiercer. Il discorso dell’autore, in questo Parasite, però, parte e torna in Sud Corea, una delle quattro tigri asiatiche economicamente, appoggiata non a caso dagli Stati Uniti e in stato di guerra con la Corea del Nord:

“ogni casa ha un bunker per nascondersi dalle bombe nordcoreane… o dai creditori.”

Inoltre, si tratta di una repubblica democratica, in cui, l’elevato sviluppo sociale, favorisce, per forza di cose, la proliferazione di quartieri di senza-reddito. Ed è proprio in uno di questi che vive la famiglia di Ki-Woo.

NB: ci tengo a specificare che, da questo momento in poi, l’articolo conterrà informazioni chiave sullo svolgimento del film. Di conseguenza, chi se lo fosse perso, se ne tenga alla larga.

Prima di proseguire, vorrei fare una domanda direttamente a voi che leggete: cos’è l’autorialità? Quando se ne può parlare? La risposta che verrebbe da dare a me, sicuramente prenderebbe in considerazione lo Spider-Man di Raimi. Cito proprio lui, l’Uomo Ragno, in quanto soggetto complicato da rendere proprio in campo cinematografico in quanto supereroe di culto; quindi, cosa fa Raimi per non rinunciare ai suoi generi e, soprattutto, ai suoi temi? Nulla, ecco. Non ci rinuncia e basta. E, dunque, abbiamo un Peter Parker la cui prima ragnatela sparata assomiglia davvero tanto ad una prima eiaculazione nel primo, e, nel secondo, abbiamo uno Spider-Man che, in poche parole, fa cilecca. Non enumero poi le scene in cui Raimi ricorda a tutti di provenire dall’horror, prima fra tutte quella del risveglio all’ospedale del Dr. Octopus. Ritornando a noi, quindi, per me la risposta è, paradossalmente, un’altra domanda in questi casi: chi gliel’ha fatto fare? Per intenderci, chi ha dato dei soldi a Raimi per mostrare Spiderman il 90% delle volte in difficoltà? Chi li ha dati a Bong Joon-ho per parlare male dello stesso capitalismo che è alla base della società in cui viviamo? Ecco, qualcuno che crede nelle loro idee.

Con questo, non voglio dire che Parasite sia un film potenzialmente pericoloso; credo che nell’epoca storica sia impossibile girare qualcosa di davvero pericoloso, o, almeno, qualcosa che non sia un documentario. Sto dicendo che il tema, o meglio, i temi della pellicola sono degli anti-temi. Ritrovarsi di fronte ad un miracolo cinematografico è rarissimo: forse è una sensazione che mi ha fatto provare solo il Paul Thomas Anderson di Vizio di Forma,  negli ultimi tempi. Eppure, Parasite, analizza il circolo del capitale con una lucidità impressionante.

Pochissimo tempo fa, uscì un bellissimo film di Jordan Peele, già autore di Get Out, ovvero USIn US, la dicotomia tra us=noi e us=united states è il tema cardine. Queste famiglie che vengono dal sottosuolo, identiche alle famiglie del “sopra”, cercano di vendicarsi per una vita vissuta in cattività contro chi analizzano come radice del loro malessere, per sostituirvisi formando poi quella enorme catena che si vede a fine film e dichiarando, quindi, l’ambiguità di pensiero dell’autore stesso, che sembra non a caso prendere le parti degli assalitori: l’anastrofe, in Parasite, è la stessa, analizzata attraverso la lente della commedia nera.

Da qui in poi, darò per assodato che chi legge abbia visto il film: l’elemento centrale della narrazione, infatti, è quella pietra. Quella che Ki-Woo continua a portarsi dietro e che porta con se’ anche durante la discesa al bunker con i due coniugi morenti; la pietra, che la si chiami congegno narrativo, fucile di Checov, MacGuffin, o in qualunque altro modo, resta, prima di tutto, un simbolo:

“Non sono io che continuo a portarla, è lei che rimane attaccata a me”

In due scene in cui appare, sembra che il ragazzo voglia usarla come arma, ed è proprio su questa ambiguità che gioca il regista: sembra effettivamente un oggetto contundente, ma in realtà è un dono, un’offerta, il sogno. Per quanto fedifrago, infatti, il ragazzo HA BISOGNO di quella truffa, e quella pietra, la cui presenza diventa continua con l’approssimarsi del finale, è simbolo del sogno che sta diventando tangibile, e, quando perde le redini del piano, sarà proprio quella a ferirlo. Cosa potrà fare Ki-Woo, ripresosi dalla botta al cervello? Riderne.

Parasite

Per Bong Joon-ho, la scalata sociale diventa, a ragione, una cosa priva di senso: il povero rimane a vita povero, puzza di povero, si comporta come un povero. La puzza, infatti, sarà l’interruttore che fa scattare il padre. Quella puzza di ravanello andato a male, di scantinato, che ha addosso secondo il signor Park nonostante il padre si tiri a lucido per accompagnarlo dappertutto, non è altro che la sua essenza, spiegata poi nel meraviglioso finale.

“Tutto ciò che dovrai fare, sarà salire le scale”.

Il piano del giovane Ki-woo, diventa, infatti, quello di comprare la casa, e immagina la scena in cui il padre sarebbe salito dal sottosuolo per abbracciarlo, per vedere i raggi del sole dall’unica casa che ha accesso diretto al cielo, non come il loro scantinato, con la sua piccolissima finestra che, simbolicamente, nel momento in cui vien lasciata aperta, fa allagare l’intera casa. Ma il piano, ovviamente, è utopico. Per guadagnare abbastanza per la casa ci vorrebbero per il ragazzo approssimativamente 3000 anni. E, infatti, lo shot di camera successivo scende verso il basso, un’ultima volta, sul volto del ragazzo, con cui si chiude il film. Questo è il XXI secolo, una situazione che non può essere modificata. 

Parasite

“RISPETTO!”

In Parasite, queste sono le ultime parole pronunciate dal fantasma del bunker, verso il signor Park, che, in risposta, si tappa il naso, facendo riaffiorare quel concetto di puzza che scatena poi l’autista. Rispetto, perché, al fantasma, il signor Park ha dato da mangiare per anni, e lui, per sdebitarsi, accendeva quella luce che la famiglia ha sempre pensato fosse sensoriale (non divago qui, Parasite in poche parole, ci sta dicendo che chi rende la vita dei ricchi migliore, è addirittura invisibile per loro). Il Rispetto, però, non arriva da entrambe le parti. I Park non rispettano chi lavora per loro, e, anzi, sono portati a credere tutto della gente che fatica, persino che abbia la tubercolosi.

La rivelazione dell’ipocrisia, però, arriva nella scena di sesso tra i coniugi Park: si eccitano con quello che in precedenza avevano criticato ed, anzi, spregiato del loro vecchio autista; si eccitano con quelle mutandine, con la droga (che, post scriptum, era stata solo una loro vaticinazione), e, addirittura, il signor Park, come nella migliore delle tragedie greche, è un eunuco! Non riesce nemmeno ad avere un rapporto completo con sua moglie, ma si ferma solo ai preliminari.

Parasite

Ma Bong Joon-ho riflette, non critica, principalmente. Riflette sull’attualità (si guardi all’altra dicotomia della pistola-telefono, su cui dovrei aprire un altro paragrafo, ma la lunghezza esorbitante dell’articolo non me lo permette) e lo fa attraverso le scale, su cui, ognuno è il parassita dell’altro. Alla signora Park non interessa la qualifica professionale, purché l’attendente sia entrato in contatto con l’America, e, dunque, si ritrova in casa gente che, però, senza i loro soldi non avrebbe mai visto tanta ricchezza. Al contrario i Park sono parassiti della società, ed il culmine si raggiunge quando viene chiesto al padre di interpretare un indiano, che, per antonomasia è l’assalito, ma per i Park deve essere l’assalitore: questo costa la vita al ricco. Le due famiglie corrispondono alla perfezione, e questa immagine si incastona perfettamente nella mente dello spettatore, tracciando a linee spesse un’immagine tragica (come il finale) di una società “in cui viviamo tutti sotto lo stesso tetto, quello del capitalismo”.

Questa lucidità d’intenti rende Parasite uno dei film più importanti degli ultimi dieci anni. 

Vincenzo Di Maio

Nasce in quel di Napoli nel 1998 ma è rimasto ancora negli anni '80. Spesso pensa di esser stato un incidente ma i suoi genitori lo rassicurano: è stato molto peggio. Passa la totalità della sua giornata a guardare film e scrivere, ma ha anche altri interessi che ora non riesce a ricordare. Non lo invitate mai al cinema se non avete voglia di ascoltare un inevitabile sproloquio successivo, qualunque sia il film.
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