
Perfect Blue, il cinema tra realtà e sogno
Durante il dormiveglia, quando non stiamo dormendo ma non siamo completamente svegli, quando le nostre incombenze, i nostri impegni sono fatti della stessa materia di ciò che stavamo sognando pochi istanti prima, esiste un limbo dove l’onirico e il reale si mescolano vorticosamente. Da questa dimensione provengono le opere di un maestro dell’animazione giapponese: Satoshi Kon.
Cresciuto collaborando con mostri sacri dell’animazione nipponica come Katsuhiro Otomo (Akira) e Mamoru Oshii (Ghost in the Shell), Kon esordisce al cinema nel 1997 con Perfect Blue, primo film scritto e diretto da lui a uscire in sala. Il film è un bignami si ciò che sarà la sua produzione cinematografica, anticipando molti dei temi e delle tecniche che verranno via via raffinati con i film successivi.

Strutturato come un thriller psicologico, Perfect Blue percorre le vicende di Mima, una pop Idol giapponese che, stanca della sua vita di cantante, decide di lasciare le CHAM (gruppo in cui cantava), per darsi alla carriera di attrice. In tutto questo, l’ossessione di un fan le farà dubitare della sua vera identità e delle sue azioni in una spirale di violenza che percorreremo con la protagonista, vivendo le sue stesse incertezze. Ed è in questo particolare della pellicola che il tratto di Kon si fa sentire. Lungo la maggior parte dei film che ha scritto, al centro dell’attenzione c’è il dialogo che i protagonisti hanno con la sfera onirica dell’esistenza. Il reale che si confronta col non reale, mescolandosi, confondendosi. Mima è un personaggio che si trova a metà, tra la sua vecchia vita di Idol e quella nuova di attrice, e i confini tra questi mondi e la sua vita privata vanno lentamente diradandosi.
Per tutta a durata del film vedremo episodi della sua vita lavorativa sovrapporsi con la sfera privata in un continuum veicolato da transizioni sempre più creative ed intelligenti, tanto da confondere anche lo spettatore. Vediamo Mima dapprima ragionare sulla sua vita con la propria agente per poi continuare lo stesso discorso in un molo, di fronte ad un’attrice durante le riprese di un poliziesco. In un momento è su di un palco mentre canta, un secondo dopo in un supermercato a comprare il latte. Le differenze tra verità e finzione si sgretolano portando la protagonista a non riuscire più a distinguere tra il vero e il falso. Un sito internet creato da un fan accanito, deluso dalla decisione della cantante di diventare attrice, descrive la vita quotidiana della protagonista morbosamente, scrupolosamente arrivando ad attribuirle frasi e pensieri mai detti e accusandola di non essere la vera Mima ma solo un impostore. Anch’esso vive in un limbo a cavallo tra le proprie ossessioni e un mondo dove la sua Idol non fa più ciò che l’aveva fatto innamorare di lei. In tutto questo mescolio di realtà che si sovrappongono, Mima perde se stessa non riuscendo a capire ciò che è reale da ciò che non lo è, si sveglia nel letto ripetutamente senza realizzare se quello che è successo sia un sogno o viceversa, arriva addirittura a pensare di essere l’autrice dei crimini che la accompagnano per tutta la durata del film.
QUESTA PELLICOLA È LA PRIMA DI UNA IDEALE TRILOGIA (IN QUANTO TALE PER AFFINITÀ STILISTICHE E TEMATICHE) CHE SI VA A COMPLETARE CON MILLENNIUM ACTRESS E PAPRIKA.
In tutte le pellicole l’onirico è reale quanto la realtà, viene plasmato dalla vita dei personaggi e ne determina il vissuto. In questo vortice di mondi che si mescolano, Kon porta sullo schermo personaggi incompleti che si trovano o si perdono nei sogni, attrici che cercano il loro amore immaginario attraverso il cinema (Millennium Actress) o psicoanalisti che nei sogni altri rivelano la propria natura (Paprika). In questo contesto, Kon riconosce nell’arte il ruolo di elemento in cui convergono i due mondi, quello reale e quello immaginario, diventando veicolo di questa miscellanea e motore delle vicende dei protagonisti. In Perfect Blue Mima si perde nel suo essere cantante ed attrice, Millennium Actress ripercorre le vicende di un’attrice sulle tracce di tutti i suoi film alla ricerca del suo amore perduto ed in Paprika uno dei protagonisti è un mancato regista che continua a sognare sotto forma di film Hollywoodiani.
Ciò che rende davvero interessante il cinema di Kon, però, è l’impronta visiva che riesce a dare alle proprie opere. La trasposizione in puro cinema dei suoi deliri onirici. I suoi film sono un continuo susseguirsi di transizioni, una più creativa della precedente, che contribuiscono a creare quella sensazione di dormiveglia in cui i confini tra il giorno e la notte sono indefiniti. Un continuo scavalcare il recinto che divide la realtà dalla fantasia. Kon riesce ad unire due scene diverse attraverso il movimento di una mano, l’aprire una porta che ci fa arrivare in un luogo totalmente diverso da quello che ci potevamo aspettare oppure attraverso una cosa come questa che mi viene davvero difficile descrivere:

Le atmosfere sono sia eteree e trasognanti, come in Paprika, sia più concrete come in Perfect Blue, Kon dà in continuazione la sensazione che la realtà davanti ai nostri occhi possa crollare, rivelando cosa c’è dietro, cosa c’è nella nostra testa. In questo caos di realtà che si sovrappongono, Kon libera la sua potenza immaginifica creando mondi di personaggi assurdi al limite del razionale, di ossessioni che si manifestano nelle vesti di incubi in un susseguirsi di immagini, colori e suoni che, a tratti, sembrano la materializzazione di un flusso di coscienza incontrollato che, di fatto, è esattamente quello che è un sogno.
È questo concretizzarsi in immagine delle sue visioni a renderlo un grandissimo, non solo della settima arte in Giappone ma del cinema in generale. A dirla tutta affianco a maestri come Oshii, Ōtomo o Miyazaki non sfigura affatto.
PS. Il Buon Christopher ringrazia.