Film

Pet Sematary: uscire dalla sala con la faccia di chi gli è morto il gatto

Pet Sematary: ovvero cosa succede se di Stephen King rimane solo l’involucro.


Stephen King è l’autore vivente che ha avuto più trasposizione cinematografiche dei suoi romanzi. È secondo solo al signor William Shakespeare.

Per dire: ormai dovrebbero aver capito i registi come fare una buona trasposizione e come invece no.

Beh, pare proprio che il duo dinamico Kevin Kolsch-Dennis Widmyer non lo abbia veramente capito.

Pet Sematary

Pet Sematary
Qui quel folle dello zio Stephen si presenta a un cameo clericale

Pet Sematary è uno dei migliori romanzi di Stephen King: esce nel 1983, nel pieno di quel quindicennio dorato 1974-1989 durante i quali il Re sforna tutti i suoi più celebri capolavori, o almeno quei romanzi ai quali ha maggiormente legato il suo nome.

Il libro ha un successo immediato che porta alla (cultissima) trasposizione del 1989 (da noi ribattezzata Cimitero vivente) di Mary Lambert e sceneggiata dallo stesso King, che vede ben due canzoni dei Ramones nella colonna sonora: una scritta ad hoc, l’omonima Pet Sematary e – udite udite – Sheena Is a Punk Rocker.

La storia è abbastanza semplice: i Creed, una famigliola della buona borghesia americana, si trasferisce a Ludlow, piccolo paesino del Maine (ovviamente), vicino al campus universitario dove babbo Louis è appena diventato direttore del servizio medico. Insieme a mamma Rachel, la dolce Ellie e il piccolo Gage c’è anche Church, diminutivo di Churchill, gattone dal pelo fulvo di proprietà di Ellie.

Appena trasferiti in una casa al limitare del bosco scoprono che all’interno della loro proprietà c’è il cosiddetto “Pet Sematary”, un cimitero dove gli abitanti di Ludlow seppelliscono i loro animaletti domestici, recintato da una gigantesca catasta di legna apparentemente insormontabile che pare messa lì apposta per impedire il proseguimento del cammino. Ciò che si nasconde al di là della catasta è un segreto tenebroso capace di riportare in vita i morti e di cambiare per sempre l’esistenza dei vivi.

Quello che il povero spettatore si trova davanti non è altro che l’ennesimo, posticcio filmetto da quattro soldi girato con una regia da mestierante, che non aggiunge praticamente nulla alla storia originale, con una fotografia bluastra che ammazza ogni tensione, zeppo di jump- scare delle balle (avete presente quando c’è il momento di tensione, il protagonista avanza verso la porta perché ha sentito uno scricchiolio, la musica si alza all’improvviso con un BAM! assolutamente ingiustificato e poi al di là della porta c’è il gatto che sta sgranocchiando una crocchetta?), personaggi piatti come l’encefalogramma di una piastrella, un finale prevedibile dopo circa 7 minuti di film (titoli di testa compresi) e tante piccole differenze col libro che non hanno alcuna giustificazione narrativa.

Roba del tipo: “Oh, zio, facciamolo un po’ diverso!”

“Perché?”

“Boh, perché almeno sembra che siamo originali”.

Il nodo cruciale del romanzo , ciò che veramente spaventava, era l’aberrante egoismo del protagonista, la cecità che, anche nelle persone più razionali, sopraggiunge di fronte agli affetti, una cecità dentro alla quale si nasconde l’orrore vero: ciò che saremmo in grado di fare per tenerci appresso le persone che amiamo. C’era poi il discorso della morte e di ciò che viene dopo, della fede in una vita ulteriore, nell’aldilà, in Dio e nel terrore di scomparire, di smettere di esistere per sempre.

In Pet Sematary questo discorso non viene affrontato se non molto superficialmente perché (e, badate bene, questa frase la troverete scritta in ogni recensione di ogni adattamento di merda di King) invece che gestire al meglio la psicologia dei personaggi, i registi preferiscono concentrarsi sull’aspetto sovrannaturale della faccenda, sulle visioni da incubo e su momenti à la The Conjuring che nel libro era totalmente assenti (e infatti sono stucchevoli da morire).

Della storia di Stephen King non rimane che l’involucro, la confezione, non c’è quasi nulla dei turbamenti originari (a eccezione dell tragedia familiare che ancora affligge mamma Rachel, che in tenera età si è vista morire davanti la deforme sorella Zelda), turbamenti che aggiungono suspance alla storia e rendono più incisivi i gesti, più sofferte le scelte. Nel film di Kolsch e Widmyer sembra che tutto avvenga meccanicamente, senza quel dolore e quel pathos di cui il libro era pregno e che rimane – in forma di tensione – appeso al cuore del lettore molto più che qualche spavento facile e una conclusione parecchio demente.

Quella che poteva essere una trasposizione moderna e profonda di una delle storie più intime e tormentate del Re del brivido, diventa invece un altro dimenticabilissimo horroretto uguale a centomila altri, buono solo per una serata in cui staccare il cervello e fare un paio di salti sulla sedia per colpa di camion di passaggio e dei “BU!” improvvisi che, per dire, non è che richiedano chissà quale talento registico.

La regola, dunque, è sempre quella: se a Stephen King togli il cuore, del film non resterà altro che un cadavere in putrefazione che, nonostante tutti i cimiteri indiani possibili e immaginabili, non ritornerà in vita per spaventarci.

Pet Sematary

Federico Asborno

L'Asborno nasce nel 1991; le sue occupazioni principali sono scrivere, leggere, divorare film, serie, distrarsi e soprattutto parlare di sé in terza persona. La sua vera passione è un'altra però, ed è dare la sua opinione, soprattutto quando non è richiesta. Se stai leggendo accresci il suo ego, sappilo.
Back to top button