
Il Petroliere – There Will Be Blood (e tante altre belle cose)
Premessa: Il petroliere è un film del 2007 e, nonostante sia assurdo parlare di spoiler in relazione ad un film di 10 anni fa, questo articolo ne sarà pieno, quindi voi stolti che non l’avete ancora visto, statene alla larga (o leggetelo comunque, qualora foste ancora più folli)!
Tra le nominations agli Oscar, tutti noi non abbiamo potuto far a meno di notare la presenza di Il filo nascosto, diretto da Paul Thomas Anderson e interpretato da Daniel Day-Lewis: ecco, per capire come questa coppia evidentemente vincente sia stata collaudata, è necessario parlare di Il petroliere.
C’era una volta, un neanche tanto giovane cercatore d’argento…
…che, un giorno tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, accidentalmente è beneficiario e vittima della botta di culo suprema: petrolio! Senza inutilmente dilungarmi sulla trama, basti dire che questo minatore, di nome Daniel Plainview, dopo aver adottato H.W., figlio di un suo dipendente morto in un incidente lavorativo, ottiene una soffiata da Paul Sunday (Paul Dano) su un giacimento di petrolio in California. Ovviamente, con gli occhi luccicanti, Daniel ci si fionda come Adinolfi su un fritto misto preparato da uno chef eterosessuale: qui, a Little Boston, conoscerà Eli (Paul Dano… aspetate, di nuovo?), gemello di Paul e predicatore. La serie di eventi che si scateneranno, sottolineano il completo declino del nostro protagonista.
Già dalle prime scene, si capisce subito che Daniel Plainview non è né un parvenu, né una gimmick comune e già vista: nell’introduzione, con scene mute che mostrano sudore, sangue e dolore di una persona che cerca di salire (o risalire, non ci è dato saperlo) cadendo in una buca. Attraverso un dolore lancinante, Plainview trova la fortuna, che, con fatica ed abilità, riesce a sviluppare fino a farla fiorire.
Vi ricordate la leggenda metropolitana secondo cui Gabriele D’Annunzio si sarebbe fatto asportare delle costole per “darsi piacere” da solo? Bene, sembrerebbe chiaro, a questo punto, che il signor Anderson stia cercando di fare lo stesso, regalando allo spettatore una sua auto-fellatio per la sua condizione di americano e quindi L’America è grande! L’America crea la sua fortuna con il lavoro e la fatica!
Mai niente fu più sbagliato.
Paul Thomas Anderson fa esattamente quello che tutti noi dovremmo fare: evita di generalizzare.
Poiché, per criticare, la conoscenza dell’argomento è condizione necessaria e sufficiente (per dire che Chiamami col tuo nome sia una vaccata – e mi dispiace ritornare sempre sull’argomento – lo si deve aver visto) ci viene mostrato prima un lato positivo, incarnando in Daniel l’America buona, quella che nasce dal nulla, per poi convergere pian piano verso la devastazione.
There will be blood, there will be greed.
Così recita la tag-line del film, introducendo lo spettatore verso la critica feroce dell’uomo e della società che vuole essere sottolineata: il parallelismo tra sangue e soldi, due facce di un qualsiasi Giano bifronte, porta inevitabilmente alla cupidigia (greed), per cui, un uomo che dal nulla è nato, rifiuta di perdere anche solo un briciolo di quella vita donatagli, al costo dell’affetto (l’uccisione del finto fratello, l’udito del figlio adottivo e la stessa confessione brutale a lui della sua condizione di orfano) e dell’umanità.
A fare le spese di un atteggiamento così votato al capitalismo, è, inevitabilmente, la religione.
Nemmeno Anderson ci spera tanto, ed Eli il predicatore ne è la rappresentazione concreta. Marx diceva che la religione è l’oppio dei popoli; qui, Anderson è ancora più fatalista… un giorno una scimmia ha guardato il sole e ha detto ad un’altra: “Lui ha detto che devi dare a me la tua cazzo di parte”.
Basti guardare la scena del battesimo, memorabile, uno scambio tra due verità relativamente oggettive di cui una sola ci è presentata come non ridicola, ovvero quella del nostro Plainview: la sua religione è l’interesse, che surclassa qualunque altra cosa e che può raggiungere qualsiasi compromesso.
Scacco matto.
Il petroliere, però, si realizza nella sequenza finale.
Plainview, ormai alcolista, nella sua enorme villa accoglie Eli che, in seguito alla grande depressione, ha disperato bisogno di denaro.
La richiesta del pacatissimo Plainview è una: il predicatore deve dichiarare la sua apostasia, votandosi all’interesse ed al dio denaro. Ciò naturalmente avviene, e sarebbe stato strano il contrario per la concezione estremamente negativa dell’uomo che viene espressa nell’opera. Ma non è finita qui. Plainview, in preda alla frenesia, da vita ad una scena alla Charlie Chaplin: inizia a gettare oggetti verso Eli, urlando e strepitando di essere lui stesso la terza rivelazione, e tutto ciò potrebbe inizialmente suscitare il riso, provocando però, poi, l’effetto che 2 girls 1 cup provocherebbe su un adolescente: il sorrisetto si trasforma in sgomento quando, dopo averlo braccato, Daniel spacca ad Eli il cranio, accasciandocisi vicino in tutta tranquillità.
Il finale è amaro, crudo, reale.
Superfluo il parlare della regia strepitosa o della superba interpretazione di Daniel Day-Lewis, sarebbe un po’ come dire che al sushi quando c’è l’all you can eat non esista galateo o qualsivoglia regola: lo sanno tutti, è ovvio.
Il petroliere è uno dei capolavori del ventunesimo secolo. Ma è un capolavoro che fa paura come l’Italia unita ai leghisti: non la si vuol vedere, si dice che non esista nulla di tutto ciò, eppure è lì, concreta, visibile a tutti. Il film di Paul Thomas Anderson è esattamente questo: una verità sconcertante e reale, di cui nessuno vuole essere testimone, ma esiste.