I supereroi all’interno della redazione di TheMacGuffin hanno scatenato una vera e propria Civil War. Una lotta senza quartiere, e un buon argomento di conversazione nelle serate di pioggia senza Nutella. Chiacchierando in chat con un’altra adepta corrotta del sito di cinema migliore d’Italia (questo, sì) ci siamo interrogate sul perché i supereroi suscitino in tante fragili menti un amore incondizionato. E mi sono sentita di spezzare una lancia a favore di chi ama i cinecomic: “è un normalissimo feticismo per le tutine aderenti, amica. Prendi me. A me i supereroi lasciano indifferente, ma se al cinema vedo pirati perdo il lume della ragione.”
Mi sono fatta un esame di coscienza ed è proprio così. Sono una hooligan dei pirati da quando ero bambina: ho letto una quantità imbarazzante di libri sull’argomento, giocato a Monkey Island troppe volte per condurre un’esistenza normale, e rivisto a schifo Pirati di Polanski. Amo follemente la storia della pirateria (al punto da essermi quasi convertita al Pastafarianesimo) e i pirati: luridi, zozzi, infidi, dolcissimi pirati. Quando si parla di pirati mi vendo facile. È una perversione incontrollabile. Il mio giudizio critico viene annullato davanti a una gamba di legno e un barile di rum, e potrei comprarmi qualsiasi merda esca al cinema disposta a giurare che sia cioccolata. Mi basta vedere un Jolly Roger per commuovervi e gridare al capolavoro, spruzzando sangue dal naso.
Potrete immaginare le mie condizioni psichiatriche quando la Disney, ormai una generazione fa, decise che i pirati erano Una Figata, e che valeva la pena di buttarci i miliarducci per fare dei colossal ad alto budget. Convocando un Johnny Depp a caso, uno Zimmer a caso, un Geoffrey Rush a caso, in seguito un Keith Richards a caso, e così via. Due sceneggiatori coi controcazzi, dei caratteristi di tutto rispetto nei ruoli minori. E anche due protagonisti cani come Orlando Bloom e Keira Knightley, ma non si può avere tutto, via.
Pirati dei Caraibi, un vero e proprio brand, con un quinto film in prossima uscita, ha ormai scartavetrato la zucchina al resto del mondo. Ma non a me. Non a me. Faccio coming out: ne voglio ancora. Premetto che considero la serie una “trilogia+” ovvero: tre film con una storia organica e compiuta, ben strutturata, riuscita + un numero indefinito e in divenire di spin off orrendi che si fermeranno – forse – con il decesso degli interpreti principali. Da fan girl di tutto ciò che ha a che fare con i gentiluomini di ventura, però, non riesco a dire “basta” e continuo a subirli passivamente, la pupilla dilatata, la salivazione azzerata. Cercherò di essere il più obiettiva possibile nella panoramica che segue, concedetemi però il beneficio del feticismo.
La Maledizione della Prima Luna
Dicevo, cercherò di essere il più obiettiva possibile, quindi forse qui sotto dovrei lasciare uno spazio bianco. Adoro questo film. Oltre ogni ragionevolezza. Non solo perché mi ha finalmente regalato, nella tarda adolescenza, dei pirati di lusso ad alto budget. Non solo perché Johnny Depp con Jack Sparrow ha dato vita a un personaggio presente nell’immaginario pregresso della mia generazione (rovinandosi la carriera).
La Maledizione della Prima Luna a me piace soprattutto per la sceneggiatura precisa, ironica, non banale. Per le coreografie simmetriche e perfette dei duelli, perché riprende tante tematiche presenti in Monkey Island. E perché riesce a restituire l’universo fantastico della pirateria “narrativa”: i pirati sono cantastorie, menestrelli, con una foresta di simboli, regole e conoscenze condivise – ma oscure al resto del mondo. La forza di questo universo fantastico sfonda lo schermo, e riesce a far sentire lo spettatore parte di un bellissimo gioco antico come il mondo. Non quello che state pensando voi, sporcaccioni: intendo il gioco di raccontare storie.
Pirati dei Caraibi – La maledizione del forziere fantasma
Mentre il primo capitolo di Pirati dei Caraibi ha messo d’accordo più o meno cani e porci, qui i sapientoni già hanno cominciato a gridare alla vaccata. Oh, se per vaccata intendete qualunque produzione disneyana spaccona ad alto budget tutta la saga è un’immensa vaccata, ci mancherebbe. Se siete abbastanza intelligenti da sapere guardare alla qualità di un prodotto a prescindere dal suo grado di tamarraggine, vi consiglio di rivederlo perché siori e siore, non siamo di fronte a una vaccata. Non ancora.
Il personaggio di Davy Jones è di una bellezza commovente, così come l’ambientazione più cupa e sinistra di questo secondo capitolo. Anche gli espedienti narrativi utilizzati per agganciare il secondo episodio a quello che doveva essere un film one shot sono di tutto rispetto e tengono bene: i rimandi alla trama del primo film e agli spiragli lasciati aperti dalla sceneggiatura sono continui, funzionali, solidi. Anche il personaggio in assoluto peggiore (quello di Elizabeth-Keira) si evolve in modo ambiguo e credibile con la scelta di uccidere Jack Sparrow. E sì, certo che sapevamo che sarebbe tornato, o staminchia che il terzo film si faceva. Ma una lacrimuccia io all’epoca, in un cinemino croato all’aperto, ce l’ho spesa comunque.
Ai Confini del Mondo
Qui c’è stata una rivolta popolare quasi unanime, col vaccatometro al limite. Ai Confini del Mondo è in realtà liberamente ispirato a un romanzo meraviglioso di Tim Powers (Mari Stregati) e pur avendo avuto qualche perplessità alla prima visione dalla terza in poi (sic) mi ha convinto. Alterna un realismo più crudo rispetto ai capitoli precedenti della saga (un film Disney che si apre con l’impiccagione di un marmocchio? What?) con dei momenti decisamente onirici e surreali (l’intera sequenza del “limbo”). Ma questo contrasto un po’ stridente funziona bene, a livello di coerenza interna alla saga, se teniamo conto dell’evoluzione dei personaggi: ormai quell’universo narrativo piratesco ha contagiato anche chi non ne faceva parte, e modificato il modo di ragionare di tutti i coprotagonisti esterni al mondo della pirateria. Il sottofinale di Orlando Bloom, che diventa comandante dell’Olandese Volante, è emblematico.
Il film meriterebbe comunque una visione per le scene magnifiche, gustosissime e dettagliate del Consiglio della Fratellanza (con il primo cameo di Keith Richards). Ogni particolare di quelle inquadrature è un regalo, per gli amanti dei pirati.
Oltre i Confini del Mare
Come avevo anticipato, per me la saga finisce all’episodio 3, e tutto il resto è spin-off (e noja). La coerenza interna delle sottotrame si sfilaccia inevitabilmente, la storia si svolge quasi in una dimensione atemporale (anche se teoricamente successiva) rispetto agli altri capitoli, i personaggi si appiattiscono su un paio di caratteristiche fisse – come i protagonisti di un cartone Looney Toones – senza un reale sviluppo o approfondimento. La sceneggiatura è povera e bruttina, il trash involontario viene sfiorato nella storia d’amore tra un prete e una sirena e il personaggio di Penelope Cruz sembra uscito da una fan fiction scritta male.
Non credo che l’andazzo cambierà nei successivi episodi, ma sapete che c’è? Io me li vedrò comunque. Per l’atmosfera piratesca, ovviamente, e per l’innegabile godimento tecnico di sequenze d’azione come quella dell’attacco delle sirene, che da sole valgono il biglietto.
E dopo aver sbrodolato così a lungo sui pregi artistici di una saga considerata tra le peggio pacchianate fracassone degli anni 2000, con che cuore potrei mai alzare un dito accusatore contro di voi, o amici che amate le coloratissime tutine aderenti indossate da cretini molto dotati? (Vi vedo ridacchiare, ultimo banco. Per sedarvi, vi consiglio di andare ad ascoltare Rogue’s Gallery. Non vi dico nulla. Scoprite di che si tratta da soli, che mica posso imboccarvi).
So già che la prossima Civil War di TheMacGuffin si aprirà proprio contro di me, che ho scritto questo articolo acritico, immaturo, puzzolente di rum e di fandom, difendendo a sciabola tratta il mio feticcio piratesco.
Ma su un unico membro della redazione so di poter contare. Fatevi avanti, pendagli da forca: io e Nilsson saremo qui ad attendervi! AHR!

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