
Poetry: un saggio di poesia contemporanea in formato cinema
Tempo fa vi avevamo parlato di Burning, film recentemente uscito nelle sale (anche italiane, sembra incredibile) di Lee Chang-Dong; oggi invece voglio prendervi per mano e portarvi insieme a me in questo viaggio struggente e delicato nei meandri della poesia e del cinema. Piano però, non diamo troppa confidenza. Il film che vi voglio raccontare è Poetry.
HEY, ATTENTO, CI SARANNO SPOILER
Lee Chang-Dong è laureato in lettere: e si vede. L’intera ossatura di Poetry si sviluppa come se fosse una narrazione letteraria, a metà tra la prosa d’arte e la poesia vera e propria. E difatti la ricerca su cui il film si concentra è proprio una ricerca poetica in tutto e per tutto. Ma andiamo con calma.
Innanzitutto è poetico il tema, o meglio uno dei temi: un’anziana signora che cerca e riscopre la sua sensibilità frequentando un corso di poesia, il cui obiettivo finale è produrre un testo poetico scritto di proprio pugno. Ora, Poetry non si sviluppa come se fosse un “manuale di istruzioni per scrivere una poesia”, didascalismo in cui, data una premessa simile, è facile incorrere. Ma invece Lee costruisce il suo film proprio come se la stesse scrivendo anche lui, una poesia: Poetry è la ricerca della bellezza che porta alla genesi e alla fioritura del discorso poetico.
La pellicola di Lee è però anche poesia in immagini. Infatti ogni inquadratura e ogni dettaglio sono misurati col calibro per restituire un’impressione poetica ad ogni fotogramma che ci scorre davanti agli occhi. La cosa davvero sorprendente è come il regista riesca sostanzialmente a irradiare l’intero film di poesia, ma mantenendo un tocco leggero, delicato, soffice. La regia danza tra le immagini tramite molte riprese con camera a mano a seguire la protagonista, che più che una donna è un’espressione di sensibilità.
Il personaggio di Mi-Ja è dolce e delicato come la regia di Lee, ma si fa veicolo di un elemento ulteriore: l’empatia. E questa è la chiave per leggere tutto il film. Perché Poetry appunto non cerca di insegnare come si scrivono testi poetici, né si perde in inutili arzigogoli barocchi per dare un tono alto all’opera. No: Poetry è un film semplice, lineare, che fluttua come una foglia che si stacca dall’albero e precipita; o come una susina che, schiacciata al suolo, esprime nuova vita, così come si dice nel film. O come me, che trovo modo di esprimere il mio ego inventano pseudo-versi banalissimi su immagini e luoghi comuni altrettanto banali. Nel dubbio mi batto il cinque da solo.
L’empatia è sia del regista che della protagonista: di lui nel ritrarre lei e di lei nell’avere una sensibilità che svela una realtà ulteriore dietro ogni cosa. Ma la sua è una sensibilità ingenua, che lei stessa non capisce e non riconosce e che tanto meno è riconosciuta o apprezzata dagli altri. Tutti gli altri personaggi che le gravitano attorno hanno un che di cinico, di durezza; lei è genuina e pura. E scusatemi la generalizzazione, ma Mi-Ja incarna la figura del letterato incompreso, dotato di una visione quasi superiore riguardo alle cose, ma visto da tutti come lo strano, quello da evitare perché bizzarro.
Ma Poetry non parla solo di questo, e nemmeno solo di poesia. L’intera vicenda si sviluppa sul suicidio di una ragazza a seguito di ripetuti stupri da parte di un gruppo di sei ragazzi, uno dei quali è il nipote – in affidamento – di Mi-Ja. La madre del ragazzo è un fantasma, compare nel film una sola volta e per neanche 20 secondi. Da questo nocciolo di sceneggiatura (premiata a Cannes, tra l’altro) Lee Chang-Dong sviluppa anche il suo discorso sulla società.
È noto il carattere conservatore, maschilista e corrotto della Corea del Sud ed è questo che Lee vuole sottolineare: dipinge una società che a fronte di un crimine così grave perpetrato da dei ragazzi preferisce nascondere tutto sotto il tappeto usando ogni mezzo possibile, in primis il denaro. Aggiungeteci che, a differenza di molto altro cinema sudcoreano – il quale guarda con occhio molto attento alla società contemporanea – Poetry è ambientato in provincia, e non nella solita Seoul, il che è palese: aggiunge violenza e corruzione per le strade, soprattutto in un quartiere povero come quello in cui abita la protagonista col nipote.
Qui l’opera di Lee si intreccia in modo quasi inevitabile con un’altra pellicola sudcoreana di questi anni: Madre, di Bong Joon-ho – autore, tra gli altri anche di Memories of murder e Snowpiercer. I due film presentano tantissimi elementi in comune, tra cui la protagonista femminile e si intrecciano in vari modi.
Aggiungiamoci poi che da inizio film la protagonista ha un qualche disturbo di tipo medico, il quale ci viene reso noto a circa metà film. Si tratta di alzheimer. Ed è questo forse il crocevia in cui la pellicola riesce a raggiungere la sua perfezione poetica più alta.
Da notare che la malattia non viene trattata come un inutile piagnisteo melodrammatico, ma affrontata in maniera decisamente più lucida e profonda.
La signora decide di non prendere provvedimenti riguardo all’alzheimer, nonostante le stia già causando alcuni problemi di memoria, ed il punto è proprio questo: lei vaga osservando il mondo, osservando la vita e ricercando la bellezza, annotando su un taccuino quelli che diventano sempre di più i versi una poesia. E qui gli orologi si sincronizzano: la vita e le memorie che Mi-Ja andrà perdendo progressivamente sono fissate indelebilmente dalla sua poesia.
Quindi, dopo averci raccontato uno squarcio di vita in modo poetico, il regista ci regala un’appendice in cui si sintetizza tutto. E difatti la poesia finale recitata a due voci (quella di Mi-Ja e quella della ragazza suicida) è il perfetto anello di congiunzione che equilibra l’intero film.
Se amate la letteratura o comunque avete una sensibilità differente, più profonda e più acuta nei confronti della bellezza, questo film potrebbe cambiarvi la vita. Con me lo ha fatto, e io sono solo uno stupido ragazzo in cerca di gloria.