La prima volta non si scorda mai. Non temete: non mi sono ancora data a rubriche rosa o romanzi pseudo-Armony, anche se ho il sospetto che siano l’unica vera via per la gloria imperitura. Tutt’altro: sei un giovane virgulto (o, nel mio caso, una giovane fanciulla) nel fiore degli anni, con qualche brufolo di troppo e un immancabile apparecchio, ma ciononostante ti senti grande e pronto ad affrontare qualsiasi sfida. Ebbene, c’è una prima volta che, impresa ardua, riesce ad essere ancora più terrificante di quella prima volta: la prima volta che ti guardi un film horror.
Caratteristica imprescindibile di questo sforzo titanico è l’assenza dei genitori o, comunque, di un qualsiasi adulto senziente; non contano le sbirciate date da dietro le tende a Shining o a Che fine ha fatto Baby Jane? mentre i grandi si gustano un thriller di qualità. No, la prima volta di un horror per definizione avviene in compagnia di coetanei altrettanto esaltati e altrettanto imbarazzanti, e ha come oggetto quanto di più lontano ci possa essere dalla qualità. Nella mia personale esperienza, la pietra dello scandalo fu The Ring. Ma non la versione giapponese, ancora dignitosa ed effettivamente spaventevole, bensì il remake americano: correva l’anno 2002, Naomi Watts era a corto di soldi ed io mi affacciavo alla fatidica soglia dei dodici anni sfavillante come non mai. Per chi non lo sapesse: The Ring narra le peripezie di poveracci che, volenti o nolenti, finiscono per vedere una misteriosa videocassetta, ricevono un’altrettanto misteriosa telefonata e dopo sette giorni muoiono nei modi più trucidi. Vi sembra una trama ingenua? Beh, era il 2002: i DVD erano una rarità, i pochi dotati di cellulare lo usavano principalmente per giocare a Snake e le VHS andavano ancora di moda. Poi, che una marmocchia vampireggiante se ne uscisse da un pozzo con il preciso scopo di far fuori il genere umano era un dettaglio irrealistico del tutto trascurabile.
Già: perché in questi contesti la logica più basilare va a farsi benedire. Si accetta senza riserve l’esistenza di vampiri, streghe, demoni vari ed eventuali e tecnologie alla Black Mirror; soprattutto se la visione dell’horror avviene in compagnia. E il primo horror, come vi dicevo, lo si vede sempre in compagnia: si elegge la “casa libera” dell’amico fortunello, ognuno porta qualcosa (il bad boy di solito si presenta con un’originalissima cassetta di birra o, nella sua versione più posh, con il Bacardi Breezer), e si dà il via alle danze. Ai miei tempi decidemmo di strafare e ci lanciammo in un pigiama party: tutte donne, tutte in rosa, tutte desiderose di spaventarsi.
E arriviamo così al cuore della prima volta horror: il motivo per cui si decide di gustarsela in compagnia non è per confortarsi, raccontarsi cose sconce (beh, sì, anche) o farsi le trecce: ci si ritrova tutti insieme per strillare, elevare la paura al quadrato, tremare. Come una partita di calcio, solo con i brividi al posto dei goal. Sarebbe interessante condurre uno studio antropologico sui tipi umani che si palesano in questi casi: c’è lo sbruffone che se lo guarda dall’inizio alla fine salvo poi farsela sotto, quello che passa la serata con le mani sugli occhi, quello che implora di mettere su un porno, nei gruppi misti quello che ne approfitta per provarci. Ogni tanto compare anche una timida versione di cinefilo, ma viene tosto messo a tacere dalla folla.
Per la successiva ora e mezza si alternano urla, risate isteriche, parolacce volte a sdrammatizzare: la verità è che nessuno lo dice, ma tutti si rendono conto di essere dei bambocci ancora puzzolenti di latte, a cui già le versioni più dark dei cartoni Disney fanno partire la tachicardia. I primi passi nel magico mondo della pubertà si rivelano per ciò che sono realmente: incerti, tremanti e molto poco dignitosi. Per fortuna che ai miei tempi non c’erano gli smartphone a immortalarli.
Il bello però viene subito dopo la prima volta horror: se possibile, ancora più desolante del post-prima-volta-quella. Silenzi imbarazzati, qualcuno che prova senza successo a buttarla in caciara, qualcun altro che si inerpica per strambe teorie fisico-psicologiche per cercare di dare un senso a quanto appena visto. Nessuno che fa l’unica cosa indicata in questi casi: raccogliere gli ultimi frammenti di residua dignità e andarsene. Giammai: sono tutti troppo terrorizzati anche solo per valutare l’idea di varcare la soglia della porta. I più sgamati hanno preventivato il pigiama party di cui sopra, gli altri lo improvvisano. E così, quella che doveva essere una serata fra amiche si trasforma in una seduta spiritica, uno stravolgimento della scienza canonica, un’accozzaglia di ipotesi strampalate prima sul senso del film, poi sul senso della vita in generale.
È superfluo dire che tale simposio si protrarrà fino all’alba, e che dopo la prima volta gli imberbi spettatori saranno irrimediabilmente cambiati: in peggio. Confusi, frastornati, spaventati, ma soprattutto smaniosi di rifarlo, possibilmente con un film più brutto. E così via, in una spirale di cineforum al contrario che grazie al cielo, con l’approssimarsi dei vent’anni, si trasformeranno in molto più salutari bevute tra amici. Perché, come per quella cosa, la prima volta ha almeno un pregio: svezza.
Piccola chicca personale: in The Ring Samara Morgan, la bimbetta indemoniata di cui sopra, è solita telefonare con un countdown in stile veglione di capodanno per comunicare al malcapitato quanti giorni mancano alla sua dipartita. Ecco: nel 2002, in una cittadina della Bassa Padana, per una settimana i cellulari smisero di essere usati per giocare a Snake. Indovinate qual era lo scherzone del momento?