
Il Processo: Orson Welles mette in scena gli incubi kafkiani
La storia è nota a tutti: una mattina, senza motivo, un uomo si ritrova in camera da letto due ufficiali che lo accusano di un crimine non meglio definito. Prima incredulo, poi scocciato, infine disperato, Joseph K. cerca in tutti i modi di salvarsi, ma invano. “Come un cane!, pensò, e gli parve che la vergogna gli sarebbe sopravvissuta.” Queste le ultime righe di una vicenda tipicamente kafkiana.
Quello che forse non si sa è che il capolavoro in questione nel 1962 è passato dalla carta alla pellicola, il tutto sotto l’occhio vigile di Orson Welles. E non ci sarebbe stato occhio più appropriato a tradurre in immagini le atmosfere allucinate e claustrofobiche di Kafka: Il processo, infatti, si basa quasi esclusivamente su un uso perfetto della fotografia.
La storia altro non è che una discesa agli inferi non troppo dissimile da altre: d’altronde, quando Kafka scrive siamo all’inizio del secolo breve, più precisamente tra le due Guerre, e una cappa di angoscia opprime tutto il vecchio continente. Welles la riprende una quarantina di anni dopo e riesce ad amplificare il senso di impotenza e insensatezza già presente nelle pagine del libro: con un bianco e nero vivido e contrastato e un grandangolo che deforma e rimpicciolisce gli imputati dinnanzi alla spietata corte suprema, il regista riesce a soffocare non solo il grigio e rispettabile Anthony Perkins, ma anche gli spettatori.
I (pochi) personaggi non sono da meno: se Joseph K. è il tipico impiegatucolo invischiato in una rete più grande di lui, i giudici sono altissimi e senza volto, gli altri imputati in perenne attesa come in un limbo e soggiogati ad una giustizia incomprensibile, il pittore deformato dalla sua stessa meschinità, l’avvocato – interpretato dallo stesso Welles – tronfio e ridondante come il potere che esercita, le donne tanto belle quanto perdute e ridotte a meri corpi – che in questo caso appartengono a Jeanne Moreau, Romi Schneider ed Elsa Martinelli.
Orson Welles sembra catapultarci nel cinema espressionista della Germania di inizio secolo; sensazione, questa, che raggiunge il suo apice all’inizio e alla fine del film, quando decide di riprendere la tecnica di un collega, Alexandre Alexeieff, e di creare uno schermo di spilli con ombre in perenne movimento, ma senza una meta – proprio com’è la corsa frenetica e isterica di Joseph K.
Il film venne prodotto al di fuori degli Studios, quindi con pochi fondi a disposizione, e in molti rimproverarono al regista un certo distacco rispetto al romanzo e una trattazione troppo fredda del racconto. Quello che forse non venne capito, è che Welles entra in sintonia con il protagonista ed i suoi incubi non attraverso la mera empatia, ma proprio grazie a una scenografia claustrofobica e ad un uso magistrale della macchina da presa; quello che cerca di trasmettere al pubblico è che non esiste uomo o comunità in grado di fronteggiare un potere impazzito e totale. Anche perché l’umanità è nel migliore dei casi pedina inconsapevole, nel peggiore – e più diffuso – colpevole, complice e indifferente. Altro non resta, allora, che accettare la fatalità e ritornare, anche se solo per un momento, ad uno spazio aperto e pacificato.
Lo stesso Welles definì questo film “il migliore della sua carriera”, più ancora di Quarto potere: e in effetti il susseguirsi di inquadrature via via più strette, gli scenari caotici e invasi di oggetti inutili, la fotografia ridondante e magnifica – tutti quanti portano la firma inequivocabile di un Maestro del cinema.