
Red State – Il film da non far vedere agli amici bigotti
Red State: l’horror che Kevin Smith dedica ai bigotti di tutto il mondo
L’America che non si vede
Che Kevin Smith fosse bravo non ci era voluto tanto a capirlo. Bastava Clerks, forse, a convincere anche i più dubbiosi. Una giusta considerazione per uno dei registi più promettenti della sua generazione, anche se dopo la doppietta pseudo-horrorifica Red State (2011) e Tusk (2014) l’appellativo di “bravo regista” comincia, a mio modo di vedere, a stargli altro che stretto.
Scritto, diretto e montato dallo stesso Smith, Red State ci racconta di un’America perlopiù inedita, spesso taciuta dal cinema, l’America che non è né newyorchese elucubrazione post-freudiana à la Woody Allen, né hollywoodiana terra di sogno tutta lustrini e pailettes. L’America di Red State è semmai quella vista nella prima stagione di True Detective, quella del profondo Sud (i red states sono, tradizionalmente, quelli che votano repubblicano e che durante gli exit-poll elettorali sono solitamente contrassegnati col colore rosso) retrograda, razzista, intollerante, innervata da numerose sacche di fondamentalismo religioso che si scagliano contro ogni forma di sdoganamento di tabù come il sesso libero e l’omosessualità.
Ci troviamo in una cittadina come tante. All’interno di una misteriosa proprietà nel folto di un bosco, una setta ultra-religiosa guidata dal fanatico predicatore Abin Cooper (un Michael Parks da orgasmo multiplo) si scaglia contro ogni forma di libertarismo e demonizza l’omosessualità.
I nostri protagonisti sono tre giovani liceali allupati come qualsivoglia adolescente della loro età, che, tramite internet, combinano un appuntamento al buio con una signora compiacente (a quanto pare dire “milf” risulta offensivo, vai te a sapere il motivo…) per una sessione intensiva di Twister di gruppo. Di qui nasce e si sviluppa la lunga trafila di c.v.d. (= come volevasi dimostrare) che segue:
- c.v.d. la compiacente madama vive nella stessa foresta dove è ubicata la magione del predicatore folle
- c.v.d. quella che doveva essere una gnocca stratocaster vive in una roulotte e si rivela essere una normalissima signora di mezza età, sexy come una sinossi di “Quinta Colonna” letta al Televideo
- c.v.d. la madama è d’accordo col predicatore folle
- c.v.d. fa bere ai ragazzi delle birre drogate
- c.v.d. i tre allupati si risvegliano legati come salami nella cappella di Abin Cooper, assistendo all’esecuzione di un sospettato di omosessualità
- c.v.d. da questo momento in avanti il film diventa un action/horror vero e proprio
L’horror civile
La seconda parte del film si differenzia parecchio dalla prima, portando sul banco degli imputati non solo i fanatici della religione e l’ottusità di alcuni americani, ma anche il cosiddetto Sistema, ovvero le forze di Polizia chiamate a intervenire per sbrogliare la situazione.
In Red State Kevin Smith non si preoccupa assolutamente di fare prigionieri, ma fa a pezzi tutto e tutti, restituendo l’immagine di un paese devastato, distrutto, un’America attraversata da tensioni sociali apparentemente insanabili, conflitti sanguinosi, diversità spaventose e alcune sacche di popolazione impermeabili alla normale e costante evoluzione di pensiero e costumi. La critica non va però solo “verso il basso”, ma demolisce anche la pochezza delle istituzioni, quella violenza serpeggiante che sfocia in episodi paradossali come suicidi di massa, episodi di isterismo religioso, omicidi/suicidi, riti deviati e psicosi varie.
Attraverso la mescolanza di horror e azione Smith riesce a parlare della realtà quotidiana, senza documentari partigiani, pipponi propagandistici, né moralone pompose. Il regista si limita a fotografare la realtà, esagerando apposta alcuni tratti per rendere più evidente la verità delle cose. Una verità che fa paura proprio perché ce l’abbiamo sotto il naso tutti i giorni. In questo senso l’horror di Smith è un horror civile, cioè non è affatto fine a se stesso, ma nasconde una moltitudine di messaggi neanche tanto nascosti.
Ovviamente Red State da noi in Italia non l’hanno nemmeno distribuito nelle sale e dobbiamo ringraziare la Koch Media (proprietaria della Midnight Factory) per la versione in home-video.
In questo film il focus di Smith è diretto sul meraviglioso personaggio interpretato da Michael Parks, che regge sulle sue spalle l’intero film dando corpo a scene di tensione impressionanti. Memorabile un suo lunghissimo monologo in cui spiega per filo e per segno l’ideologia della sua setta e di un’America rurale, ignorante e bigotta, molto simile a quella raccontata da Stephen King.
Questa volta Smith elimina completamente dalla sua opera l’ironia e le fugaci stilettate critiche: Red State infatti non è un film folle e grottesco come il successivo Tusk (in cui è nuovamente presente il meraviglioso Parks), ma una pellicola glaciale, implacabile, a tratti iperrealista. Il tutto viene accompagnato da una regia veloce, ma non frenetica, che scandisce benissimo i tempi di un film non perfetto, ma certamente memorabile, utile a comprendere meglio un passaggio fondamentale di uno dei grandi registi contemporanei e – soprattutto – dell’America di oggi.