Requiem – Rimpianto per l’horror che voleva essere, ma che non è stato
Lo ritenevo lapalissiano, ma dopo aver visto Requiem sento proprio il bisogno di ribadirlo: raga, fare horror non è che ve lo ordina il medico. Nel senso, capisco che tiri, capisco che piazzi un trailer con qualche jump scare, fotografia smorta, protagonisti dall’occhio di cicogna, una musica tremebonda, un vecchio maniero abbandonato et voilà, hai accalappiato il 90% degli allocchi che (come me) di horror ci vanno sotto. Ma l’horror fatelo solo se siete in grado, ve ne preg(hiam)o.
Questo è il punto uno, sempre valido e universale. Per Requiem bisogna però aggiungere anche una postilla: non è possibile iniziare una serie promettendo un horror coi controcoglioni e poi tradire l’aspettativa dello spettatore propinandogli un drammone di 6 ore, che di horror ha giusto qualche scricchiolio e qualche babau ridente e fuggitivo.
Poi mi sento preso per il naso. Poi mi parte il “vaffanculo”.
Secondo voi può bastarmi un villone nella campagna gallese, specchi rotti e qualche flashback leggermente tenebroso? No. Grazie.
Ma ricominciamo da capo: Requiem è una serie uscita nel marzo 2018 su Netflix, ma di produzione britannica (BBC ovviamente), fattore che personalmente ritengo quasi (quasi, appunto) sempre indice di qualità. Basta fare nomi come Sherlock o Black Mirror (stagione 1 e 2) per non potere che concordare.
Mathilda Gray (Lydia Wilson, già vista nel pilot di Black Mirror) è una delle violoncelliste più quotate della Gran Bretagna. La sua vita procede tra un concerto e una standing-ovation, fino a quando la madre, appena prima di una sua esibizione, si taglia misteriosamente la gola di fronte a lei. Da questo fatto drammatico si scatenerà una corsa a precipizio verso la ricerca di risposte all’interno di un passato tenebroso, che conduce la giovane musicista e il collega/amico Hal fino alla sperduta Pennlynith, nella campagna gallese.
Dopo una visione stanca e stufa posso dire che Requiem assomiglia tanto al fratello tardo e un po’ stronzo di Twin Peaks: lento, noioso, banale da morire. Alterna personaggi francamente poco interessanti a situazioni viste e riviste, una trama prevedibile, atmosfere da mistery-horror scontate e già abusate nei lontani anni Sessanta. Per quanto la regia non sia poi malaccio e alcune sequenze siano ben girate non ti viene mai voglia di sapere chi ci sia dietro il mistero, cosa vogliano dire certi fatti all’apparenza inspiegabili, i protagonisti sono freddi, piatti, fastidiosamente anticipatici e privi di spunti.
A volte si ha la netta sensazione che le sequenze horror (poche e piatte come una tavola) siano state inserite a forza da un regista che aveva in mente tutt’altro, che voleva calcare, anche giustamente, la mano sul dramma interiore della perdita della madre e della ricerca di se stessi. E lasciatelo lavorare di testa sua, poraccio!
Scherzi a parte quello che ne viene fuori è un prodotto senz’anima, fiacco e spompato già dopo mezzora, che si trascina lentamente verso un finale che non soddisfa nessuno e che lascia francamente disinteressati. Ecco, l’ho detto, Requiem è una serie morta in partenza, che mi ha lasciato completamente apatico. Lo avrò finito da tre giorni eppure fatico già a ricordarmi i nomi dei personaggi, di ciò che succede. Viene da chiedersi perché Netflix lo abbia acquistato, ma soprattutto perché venga spacciato come nuova frontiera dell’horror seriale, quando di horror non ha niente e di seriale c’è solo la follia omicida che lo spettatore si sente addosso dopo tutta quella noia.