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Ritorno sul luogo del delitto. Seconda telefonata con Luca Sorgato

Torna nei lidi di MacGuffin il regista Luca Sorgato. Ad aprile lo avevamo contattato per discutere della sua “Trilogia sulla disillusione”. In quella prima telefonata, Sorgato ci aveva condotti nel mondo del poeta Attilio Lolini, le cui poesie avevano ispirato quella sua particolare trilogia di corti. Vi invitiamo a recuperarla qui, qualora ve la foste persa. Con il giovane regista (classe 1985) discutiamo oggi del suo corto “Zio Palmiro”, candidato nella categoria “Concorso cortometraggi italiani” della 40ma edizione del Torino Film Festival. Il MacGuffin ringrazia Ida Bisogno (ufficio stampa di “Zio Palmiro”) per averci messo nuovamente in contatto con il regista.


ZIO PALMIRO – Una recensione

Uno spiantato di nome Antonello (Giacomo Laser) vive in una squattrinata pensioncina, ma si reca spesso in un cimitero e si addormenta su una panchina. Il suo obiettivo è ricevere in sogno lo zio Palmiro, un familiare incredibilmente fortunato al gioco, per avere da lui dei numeri da poter giocare. Il protagonista si aggrappa con ogni fibra a questa speranza, ma non sa che zio Palmiro non intende condividere la sua fortuna con lui.

Il regista Luca Sorgato sta per tornare su Attilio Lolini, dopo la contemplativa e malinconica Trilogia sulla disillusione. Il suo nuovo lavoro sarà tratto da un’opera complessa e bizzarra di Lolini, il romanzo Morte sospesa. Questo si tradurrà in un lungometraggio, intitolato con un nome freddo e glaciale, assonante all’utensile da scrivania per aprire le lettere: Il tagliateste. Tuttavia, prima di lanciarsi in questa impresa, Sorgato ha preferito fare alcuni esperimenti e per farli si è affidato nuovamente al cortometraggio. Girando per un mercatino, Sorgato vede la foto di un signore sconosciuto, comincia a fantasticare sulla sua identità e decide di renderlo un personaggio chiave di un suo film. Prendendo i luoghi del futuro lungometraggio e il protagonista (l’ingenuo Antonello), racconta una piccola storia ex novo e muove i primi passi per prepararsi all’impresa del suo film d’esordio.

Questo “spin-off” è di fatto un prologo spirituale del Tagliateste. Sorgato elimina il colore, il corto è girato in Bianco e nero. Introduce i dialoghi e introduce anche qualcosa di inedito nel suo mondo Lolinano: il grottesco. Se prima seguivamo un protagonista ai margini della società, errante, in un mondo povero e decadente, tessendo un dramma esistenziale e placido, per quanto sottilmente angoscioso, ora le vicende e i personaggi di “Zio Palmiro” vengono trafitti dal sottile ago del grottesco. La povertà e la disperazione si traducono in squallore, anche umano. Custodi del cimitero si aggirano come proprietari e, come cercatori d’oro, rimestano e trafugano i tesori terreni lasciati dai morti, delusi nipoti insultano con nonchalance zii morti e anime di un altro tempo burlano con cattiveria nipoti bisognosi.

Antonello attende sognando sulla panchina del cimitero (Inquadratura tratta da Zio Palmiro)

Sorgato cambia marcia e promette un Lolini diverso per Il tagliateste: più mordace e cinico. E noi ovviamente non possiamo che dirci curiosi di quello che ci potrà riservare…

In attesa di saperne di più ci tuffiamo senz’altro in una discussione con il regista.


UNA FOTO E UN NEGATIVO: COME NASCE “ZIO PALMIRO”

(Un uomo in fotografia diventa attore. Lolini sempre e comunque. Palmiro è un “negativo”. Insultare i morti non è peccato.)

Nel pressbook dicevi che la scintilla di questo “Zio Palmiro” nasceva da una foto e dal tuo fantasticare intorno all’uomo ritratto. Questa volta non sei partito da Attilio Lolini?

LUCA SORGATO – Il punto di partenza è sempre Lolini in realtà. È come se fosse una costante, un pensiero che pervade gran parte delle mie giornate. E la grande domanda è “quando finirò di di attingere a questo pozzo?” Perché Lolini è un pozzo, praticamente. Io vado lì e tiro su il secchio. A volte c’è più acqua, a volte c’è meno acqua. In questo caso non sapevo bene da che parte andare. Visto che ho fatto una trilogia basata su tre poesie, questa volta mi sono detto “via! Le poesie, lasciamole un attimo da parte: c’è “Il tagliateste” all’orizzonte. Cosa può esserci in mezzo?” Cioè: cos’è che può essere preso da questo pozzo? In realtà c’è Ecclesiaste in Zio Palmiro (grande lettura di Lolini, molto meno conosciuta di quella di Ceronetti, altro grande maestro). È come se Lolini ci fosse sempre. Quindi, inevitabilmente, quando ho visto quella fotografia al mercatino e ho trovato lo sguardo di questo “personaggio”, subito mi si è innescata la scintilla – è uno sguardo molto molto intenso! Difficile non vedere, in una stanza assieme ad altre fotografie, il suo sguardo, la sua figura austera, così immobile, ma così dinamica allo stesso tempo! – e ho deciso di renderlo un personaggio all’interno di un cortometraggio su base “loliniana”. Il corto alla fine è nato così. La fotografia di quest’uomo aveva un costo molto contenuto, quindi per dieci euro l’ho presa. E giusto per dirti la potenza del soggetto: sua moglie (“al suo fianco” sulla bancarella) non aveva per niente la stessa potenza, lo stesso sguardo. E qui personalmente sono tornato anche un po’ al discorso della fotogenia, che è alla base proprio del Cinema. Ho scoperto una persona deceduta chissà da quanti anni e ho constatato che era pervasa da questa sorta di aura. L’ho preso e reso un personaggio cinematografico, per quanto è stato possibile farlo. E da lì ho abbastanza articolato la scintilla che è diventata un falò. Perché questa figura è riallacciata ad Antonello, che è il protagonista del corto. Mi piaceva che avesse un legame di parentela e da lì ho inserito una nota… diciamo “autobiografica”. Anche se non mi fa molto piacere inserire note autobiografiche, se non mescolate e rese irriconoscibili attraverso la finzione.

È uno sguardo molto molto intenso! Difficile non vedere, in una stanza assieme ad altre fotografie, il suo sguardo, la sua figura austera, così immobile, ma così dinamica allo stesso tempo!” (Inquadratura tratta da Zio Palmiro)

Diluite, diciamo

LUCA SORGATO – Sì, non mi va proprio di inserire delle note della mia vita passata. Fare il classico “film sul nonno” capisci? In questo caso mia nonna, grande amante del gioco d’azzardo… e penso anche ludopatica. Però ludopatica in un senso “buono” (mi piace vederla così), perché aveva anche una grande eleganza. Mia nonna era veramente amante dei numeri e del gioco. Amava la roulette, amava le carte e amava il lotto in tarda età, quindi io sono proprio cresciuto con lei che mi mandava a giocare al lotto e con lei che mi raccontava del Casinò. Lei andava a Saint-Vincent, a Campione, queste mecche del giocatore d’azzardo. Ho inserito questa nota di mia nonna all’interno di Palmiro. Volevo che lui fosse un personaggio molto fortunato al gioco, come lo era mia nonna… per poi creare, diciamo, uno “switch”: mia nonna era molto generosa, prestava soldi a tutti, veramente! Non avendo nemmeno tanti soldi. Però se c’era qualcuno che le chiedeva “che mi da un milione?”, bam! lei glieli dava subito, così (un milione di lire, ovviamente). Mai più tornati [indietro, ndr.]. Mia nonna ha prestato soldi a tutto il vicinato. A me piaceva anche l’idea, per completare tutto il quadro [del personaggio, ndr.], che Palmiro invece fosse tirchio. Il grande giocatore, il grande fortunato, che però in realtà fa i regalini comprati in edicola. Quelli proprio sbiaditi dal sole, capisci? E mi piaceva, per concludere, l’idea di insultare un defunto. Perché poi questa cosa della morte che imbonisce tutti – e quindi qualsiasi persona che muore diventa comunque buona – non mi ha mai convinto fino in fondo. C’è una grande ipocrisia dietro questo. Mi piaceva l’idea di insultare Palmiro, ma in un modo sempre comunque elegante. Il nipote protagonista gli dice “mi stavi antipatico prima, mi stai antipatico ancora di più ora che sei morto”. Quindi non ci trovo niente di male… nel “ribadire”, ecco, la propria antipatia a un defunto. 


LA FORTUNA È UNA MALATTIA

(Una donna analizza la sua fortuna. Non si gioca sempre per vincere soldi. I paperi e zio Palmiro. La fortuna non si eredita.)

Il custode del cimitero nel suo ufficio (Inquadratura tratta da Zio Palmiro)

LUCA SORGATO – Sono molto affezionato a questi ricordi che ho. Se li guardo in modo distaccato, li reputo proprio romantici, d’altri tempi. Poi in effetti sono oggetti i ricordi. Sono degli oggetti che mi appartengono. Alla fine è come trovare un oggetto al mercatino: trovo un ricordo che ha quella sorta di appeal che mi interessa esplorare. E il mio compito sta fondamentalmente nel riproporlo in modo più adatto. Non posso dire “questa è mia nonna”. Devo comunque mascherarlo il ricordo, altrimenti [il film, ndr.] diventa veramente troppo…

Autoreferenziale?

Locandina del cortometraggio (grafica di beynot)

LUCA SORGATO – Ma sì! Voglio dire, stiamo parlando comunque di creare un meccanismo e di mostrarlo a uno spettatore. Detta con un po’ di cattiveria, allo spettatore non gliene frega niente che quella sia tua nonna e che quello sia il tuo ricordo.Però questi miei oggetti-ricordo sono davvero molto interessanti. Uno di questi, ad esempio, è la fortuna di mia nonna. Mia nonna era veramente un essere fortunato. E la viveva in modo totalmente leggero questa sua fortuna. Però ne era anche molto ossessionata. Penso a mia nonna che si faceva portare dai ragazzini del quartiere appena neopatentati al casinò. Quindi immaginati questi ragazzi di vent’anni neopatentati, con questa signora che andava a giocare; e immaginati alle quattro di notte che le dicevano “ti prego torniamo a casa, siamo stanchi” e lei che rispondeva “tornate pure a casa”. Lei tornava a casa dalla Val d’Aosta alla provincia di Milano in taxi. La fortuna era tutta legata al fatto del gioco, amava tanto la roulette. Mia nonna, aiutata da mio nonno (molto meno fortunato), passava le nottate con una roulette sul tavolo a girare i numeri e a cercare una sorta di “verità della roulette”. A calcolare dei sistemi, per vedere quali numeri uscissero. Cioè, era proprio una vita dedicata al numero. Questo per farti capire anche questa voglia di esplorare la sua ludopatia, di esplorare il mondo della fortuna, della sua fortuna. E penso anche che lei in qualche modo alimentasse questa fortuna regalando i soldi. Lei era fortunata vincendo al gioco, ma allo stesso tempo si liberava di questi soldi in parte regalandoli e prestandoli alle persone che ne avevano bisogno nel vicinato. Era una sorta di beneficenza a chilometri zero. E questo fatto secondo me alimentava la sua fortuna, come fosse una questione karmica. Credo che continuasse a vincere perché in realtà le interessava [solo, ndr.] giocare. Quindi il corto è collegato a questa fortuna fondamentalmente. E di contro mi piaceva creare [nella storia, ndr.] anche la controparte sfortunata di Palmiro: Antonello, che è quindi un essere totalmente disgraziato. In quel periodo pensavo tanto anche a Gastone e Paperino. È abbastanza inevitabile arrivare a quel riferimento, perché sono proprio l’essenza della fortuna e della sfortuna. Sono anche due cugini, quindi due parenti.

Però è anche vero che Gastone nel suo nel suo piccolo (come anche Palmiro) è un esempio negativo di fortuna. Nel senso che comunque ha una personalità egoista, scorretta, in certe storie assolutamente diabolica e quindi è completamente negativa. E mi verrebbe da dire anche senza umanità… o papericità in questo caso…

LUCA SORGATO – Infatti ti volevo correggere (ride), vabbè dai no scherzo: è un papero senza alcuno scrupolo. È un papero fortunato, come dici bene tu, molto simile a Palmiro, perché ostenta la sua fortuna e si rapporta male con i suoi simili sfortunati.

Però mi viene da pensare che la sistematicità di tua nonna, tutto questo dedicarsi “scientifico” alla roulette, ai numeri e così via, cozza incredibilmente con la tua visione di fortuna che fai trasparire dal corto. Cioè la fortuna non è qualcosa che si imbriglia, non è qualcosa che si può addomesticare. È qualcosa, al limite, che fa parte di un certo tipo di caos, in cui una persona riesce a entrare (e a volte a restare) in modo casuale. Mi verrebbe da dire come Palmiro o tua nonna che erano incredibilmente fortunati.

LUCA SORGATO – Quando riflettevo sul corto, anche sulla questione legata a mia nonna, ho sempre pensato questa frase: la fortuna è una malattia. Che ce l’hai e te la tieni. Non puoi insegnarla, non puoi passarla. Questo sì. Ma infatti questo suo tentare di scoprire la sua fortuna… quei sistemi sono stati totalmente fallimentari. Non puoi farci niente: ce l’hai te, sei un essere fortunato (al gioco). 

(Immagine tratta da Alan Ford n.5 ”Date! Date! Date!”)

UN QUADERNINO PIENO DI NUMERI

(La realtà si filtra, non si filma. Basta con questi film così poco interessanti con i ragazzini col coltello in mano. La bellezza di un film di Marco Ferreri con Jerry Calà. Mai temere l’artificioso.)

LUCA SORGATO – …Poi l’elemento-oggetto del film, che è questo quadernino, è un quadernino di mia nonna: io ho trovato questi quadernini solo pieni di numeri. Numeri su numeri su numeri. Quindi io poi dopo l’ho ricreato in modo, diciamo, molto più scenografico come mi piaceva. Parto da un ricordo, parto da una nota autobiografica, ma non metto il quaderno di mia nonna: metto un quaderno che ricorda quell’oggetto.

Senti allora a questo punto visto che l’hai tirato fuori parlami un attimo del “filtraggio della realtà”. Anche io sono d’accordo su questa faccenda: non puoi mettere la realtà al Cinema. Tu devi per forza passare per un filtro, perché il cinema è finzione. Devi filtrare in modo tale da creare un risultato che medi perché lo spettatore possa fruire e comprendere. Cosa lasci? Cosa secondo te è cinematografico?

Aki Kaurismäki a Londra nel 1990 (fotografia di Marya Leena Ukkanen)

LUCA SORGATO – Il “filtraggio” è proprio un passaggio fondamentale. Nonostante la contemporaneità ti porti a pensare che il non-filtraggio sia una condizione migliore. Per il cinema io credo proprio nella raffinatezza, un passaggio di filtrazione, appunto come fosse il vino. La bellezza del cinema è ricreare la realtà. E se tu la realtà la lasci tale e quale… non lo so non è così affascinante a mio avviso, ecco. E non è detto che per ricreare quella realtà ci vogliano per forza mezzi, risorse umane da set hollywoodiano. Questo è quello che penso io. Quello che mi interessa (e sempre mi ha interessato nel Cinema) è riconoscere l’artificiosità. E gli autori più grandi, quelli a cui penso tutti i giorni, sono autori che creano questo “meccanismo cinematografico” attraverso questo filtraggio della realtà. Penso anche a Aki Kaurismäki, Luca Ferri. Invece, il “Cinema del reale”, come lo chiamano alcuni, parliamoci chiaro, non ha alcun senso! Il “Cinema del reale” sono tutti i vari epigoni di Gomorra con ragazzini criminali che adesso vanno per la maggiore. Basta mettere un gruppo di ragazzini che vanno giro con i coltelli e bon! è fatto il film. La differenza che c’è tra un quaderno di mia nonna e il quaderno che ho inserito nel film è la mia idea. Non si scappa. Il quaderno è pieno di numeri, mi piace il fatto che questa donna abbia scritto tutti questi numeri per tutta la vita. Però poi guardandolo so che devo ricrearlo, seguendo la mia idea, secondo il mio gusto. Senza questo [lavoro, ndr.] manca il tuo importi in qualcosa che crei. 

Senti, hai parlato del quaderno, ma la foto di zio Palmiro?

LUCA SORGATO – La differenza [con l’originale, ndr.] è abbastanza marcata perché Palmiro non è un oggetto. Palmiro è un personaggio. Questa cosa è abbastanza lampante. E in questo senso io ho voluto fare anche un’inquadratura di Palmiro molto stretta, molto molto stretta. E lì c’è quest’idea di Palmiro-personaggio. Palmiro non è la fotografia. Palmiro è un personaggio del corto, come potrebbe essere un personaggio del cinema muto. La fotografia è un personaggio, il quaderno è un oggetto.

Senti, ma per l’artificiosità, qual l’estremo, il limite? Quando sai che stai andando oltre?

Jerry Calà in Diario di un vizio

LUCA SORGATO – Il limite, in realtà, è un limite che poi dopo non accetto. Cioè lo riconosco, ma non lo accetto. Mi spiego citandoti un film che è Diario di un vizio di Marco Ferreri dove c’è Jerry Calà. Quello è un film di una bruttezza dal punto di vista dell’artificiosità! Jerry Calà è imbarazzante! Ferreri, che è un autore stimato, odiato e insultato (quindi è proprio l’autore per certi versi), in quel momento prende questo comico e lo rende protagonista di questo film in cui manifesta questa sorta di artificiosità attoriale talmente brutta, talmente inaccettabile che diventa poesia! Ecco… in quel momento lì io mi rendo conto che non ho limiti in questo senso! Preferisco di gran lunga un Jerry che straborda, chiaramente fuori luogo e fuori contesto, rispetto a tanti altri film che potrei vedere. Quindi in realtà l’artificiosità per me non ha limite. Cioè potrebbe essere davvero illimitata. Mi interessa solo che ci sia. Anche perché ripeto, poi c’è anche un modo eccellente di realizzarla. C’è un modo un po’ più scadente e questa cosa è ondivaga tra i vari autori. Non è che Ferreri ha fatto tutti i film così. Dillinger è morto non ha ad esempio questa artificiosità maldestra dovuta ad un attore… 


FARE TABULA RASA: COM’È STATO LAVORARE CON NUOVI ATTORI

(Filmare i giovani. Il piacere di filmare gli anziani. Nuovi regali da nuovi compagni di lavoro. Massimo Ceccherini parte per l’Africa. Ritornare sui propri passi.)

Backstage di Zio Palmiro (fotografia di beynot)

Allora senti proseguiamo con questa cosa dell’artificiosità e del trattamento quindi del reale passando al lavoro con gli attori. Prima avevi Renato Ansaldi [protagonista della trilogia di corti precedente a “Zio Palmiro”, ndr.] adesso questi altri attori. Cos’è cambiato.

LUCA SORGATO – Ecco insomma direi che principalmente parlerei dell’assenza di Ansaldi e della presenza di Giacomo Laser. La differenza grande è che Renato Ansaldi innanzitutto era molto più anziano di Giacomo Laser e io ho sempre avuto una predilezione per le persone più anziane, quindi ho dovuto adattarmi un po’ a questa faccenda di un giovane di trentacinque anni. Mi sono dovuto un po’ sforzare. Pensa, ero arrivato anche a immaginare di fare film solo con persone anziane. Tutt’ora per me è molto meglio filmare loro che filmare un giovane. 

Perché?

LUCA SORGATO – Probabilmente è legato al vissuto e anche alla mia ossessione per gli oggetti o per le cose del passato. E una una persona anziana è una persona del passato.

Con un carico di storia quindi diciamo…

LUCA SORGATO – Sì certo. Renato Ansaldi aveva questo. Era una un oggetto del passato. È una mia fissazione che pervade oggetti, persone, luoghi. Tra una persona e un luogo cambia poco. Renato Ansaldi era come una fabbrica o una stazione abbandonata. Quindi vai lì e rimani affascinato dall’architettura o dal corpo. Rimango totalmente affascinato da queste figure e mi è piaciuto in realtà distruggere un po’ questo concetto e lavorare con una persona della mia età, perché Giacomo Laser è del mio stesso anno (1985). Riconosco che lui è una delle poche persone giovani che filmerei. Pochissime. Devo subire veramente un fascino notevole. Come è successo anche con Giovanni Bagnasco (ventun anni). Lui l’abbiamo utilizzato per fare un videoclip e ho visto subito che aveva questa presenza, questa forte carica. Lui c’ha già dentro tutto per fare il Cinema. È veramente una pietra preziosa, perché ha veramente un’eleganza totale nello star davanti alla macchina da presa. Sono contento che abbia capito che probabilmente può fare questo nella vita per un po’ di tempo. Finché gli piace… finché vuole esplorare…

Backstage di Zio Palmiro (fotografia di beynot)

…O finché la fortuna continua a essere dalla sua… 

LUCA SORGATO – Esatto. L’altra differenza abissale tra Ansaldi e Giacomo Laser è il fatto che io ho inserito i dialoghi per la prima volta all’interno di un film e credo proprio che sia un territorio per me nuovo e di ricerca soprattutto. Quindi è in questo anche la magia: nel maldestro, nell’imperfetto.

Però sempre ricostruito…

LUCA SORGATO – Sempre ricostruito sì e la grande forza comunque arriva sempre delle note testuali di Lolini. Quindi si parte sempre e comunque dal suo vocabolario, il suo gergo, il suo modo di esprimersi, che poi viene un po’ rivisitato da me, ma anche da Giacomo stesso. Sono nati dei piccoli regali anche proprio in fase di ripresa. Questi piccoli regali inaspettati non mancano mai. 

Lui è un attore che ha avuto già delle esperienze?

LUCA SORGATO – Giacomo in realtà io quando lo conobbi pensai subito che sarebbe stato Antonello. Subito. Cioè aveva tantissime cose in comune col personaggio che esisteva già. È chiaro che poi non essendo lo stesso personaggio, c’è stato una sorta di adattamento. Però lui non è un attore di professione. Lui è più un’artista totale. Quindi è un poeta, è un pittore, un musicista, è un performer. In questi anni ha interpretato una moltitudine di personaggi che hanno sempre e comunque una sorta di sguardo comune verso la realtà che li circonda. E a me questo interessava, così abbiamo provato a calarci nei panni di Antonello. Sono contento di come sia andata. Cioè diciamo che fino alla sera prima era totalmente un’incognita. Un’incognita molto grande eh. Non ti nego che avevo la sensazione come di un matrimonio. Quindi di non presentarmi e di mollare tutto all’ultimo. Però è andata molto bene in realtà…

Però ci stiamo dimenticando il custode. Lui invece?

LUCA SORGATO – Toni Pandolfo in realtà è una persona che spio da dieci anni e che ho sempre voluto chiamare e coinvolgere in un progetto filmico, ma non l’ho l’ho mai fatto. Poi nel frattempo, in questi dieci anni diciamo “di spionaggio”, ho visto che “cavalcava” un po’ anche l’onda della moda. Quella moda che contempla un certo tipo di estetica e un certo tipo di personaggi, con dei visi molto particolari. Lui, veramente ha un volto come pochi, eh. È un caratterista! Mentre lo osservavo mi dicevo “fa tanta moda, fa gli shooting. Non mi ha mai entusiasmato prendere un personaggio così [legato alla moda, ndr.] e metterlo in un mio film, beh è andata!” Per il ruolo così abbiamo fatto dei tentativi. Ci siamo sentiti diverse volte al telefono con un attore conosciuto. Era contentissimo della parte, anzi mi dava anche dei suggerimenti molto, molto illuminanti. Poi si è messo di mezzo il classico agente che ci ha sparato una cifra fuori di testa… Quindi abbiamo virato verso un altro grande attore italiano, con cui spero di lavorare prima o poi, che era Ceccherini. Contattato anche per comodità, perché lui abita qui in Toscana, abbiamo girato a Prato. Ho avuto modo di sentirlo al telefono e per messaggio m’ha detto che gli sarebbe interessato, che l’avrebbe fatto anche aiutandoci. Quindi era predisposto, se non che poi è partito per l’Africa (per lavorare ad un altro film) proprio nel periodo in cui giravamo noi. Quindi purtroppo è sfumato anche quello. Non voglio dire con questo che Toni sia un rimpiazzo… però lo sto dicendo in poche parole. (ride) Tutto questo mi ha portato a riflettere e a dire “perché cavalcare questo dogma della moda? Di certi ambienti e di certe cose non mi interessa, perché a me interessa il corpo cinematografico. Quindi a me che Toni faccia il modello per questo o per quell’altro, che faccia il videoclip trapper, non me ne frega niente!” e quindi abbattendo questa sorta di preconcetto che avevo, l’ho chiamato, ed è stata subito magia! La cosa era semplicemente dover abbattere un preconcetto che avevo e sono molto contento di averlo fatto perché Toni ha reso benissimo! Non potevo chiedere di meglio ecco. Poi l’ho un po’ l’ho aiutato e un po’ infastidito, comprandogli delle scarpe di quattro numeri più grandi a punta per trovare quelle movenze [tipiche del personaggio del custode, ndr.]… Però lui è stato davvero bravissimo! Al di là poi del corto, anche come persona. Ma, in realtà, tutti e tre i personaggi di Zio Palmiro! Anche Palmiro. Grande gentilezza! Eh sì sì, sempre molto professionale…


ASPETTANDO “IL TAGLIATESTE”

(L’esperimento di Zio Palmiro. Beniamino sì. Beniamino no. Fare un film da un romanzo illeggibile. Un film per chiunque lo vorrà vedere.)

LUCA SORGATO – Allora, lo Zio Palmiro è stato un banco di prova. Quindi vive di una sua autonomia dalla sceneggiatura de Il tagliateste, con alcuni luoghi e alcuni personaggi del lungometraggio. Antonello sarà il protagonista. Abbiamo testato quindi l’attore Giacomo Laser. Toni e Giovanni sono figure che sicuramente entreranno. Abbiamo la pellicola, per me era la prima volta girare in pellicola e mi ci trovo bene. Nel senso che comunque sapevo che non avrei sforato, perché non mi piace girare tanto, quindi sì penso di essere abbastanza predisposto anche al girare e quindi a risparmiare pellicola (non dico “Buona la prima!”, ma “Buona la prima e la seconda!”… e si cambia [inquadratura, ndr.]). Abbiamo testato il laboratorio di sviluppo, abbiamo trovato una collaborazione molto importante anche a livello di post audio. Ho lavorato con Davide Favargiotti, Alessandro Fusaroli per il sound design e con Italo Cameracanna, uno storico rumorista (ha lavorato per tanti maestri). Professionisti enormi nel loro campo. Sono stato veramente fortunato. Abbiamo lavorato con Laser Film, che è uno studio di mixing e post produzione audio che praticamente è il top che c’è in Italia, dove passano tutti i vari film dei più grandi autori italiani di oggi. Quindi è stata un’avventura che ha portato sicuramente dei risultati in questo senso e mi piacerebbe partire da questa base per poi girare il lungometraggio. Quindi non è stato tempo sprecato tutto quello che abbiamo testato, anzi ci sono state molte più conferme che che smentite in questo senso. Il tagliateste, nella mia idea, dovrebbe arrivare dopo aver realizzato, forse, anche un altro corto, che adesso è un po’ in via di sviluppo. Si chiama Beniamino. La mia idea sarebbe fare un’altra piccola trilogia [di cortometraggi, ndr.] prima de Il tagliateste, però penso che se avremo l’occasione di girare il film ci dedicheremo a questo – senza pensare a questa “formalità” ecco. Beniamino potrebbe essere un estratto più che uno spin-off. Quindi proprio un pezzo di sceneggiatura del Tagliateste, che vive di una sua sorta di autonomia, quindi può reggere come cortometraggio, partendo sempre da dalle basi tecniche e dalle risorse umane di Zio Palmiro. Potrebbe essere un esperimento: girare qualcosa che poi verrà incastonato come una pietra e un anello. Stiamo ragionando in quest’ottica con la casa di produzione che è la “5 e 6 film” di Brescia. Il tagliateste arriva dalla decodifica e dal riassemblamento del romanzo di Morte Sospesa… che è un romanzo illeggibile dell’ottantasette che ha scritto Lolini e su cui io ho potuto lavorare, grazie alle bozze preparatorie che mi ha dato la moglie. Quindi ho a casa tutt’ora questi faldoni di Morte Sospesa e mi sono accorto che, andando sempre più a ritroso, scoprivo cosa davvero Lolini avesse in mente con questo romanzo. Quello che è stato pubblicato è un corpo smembrato. È come se [Lolini, ndr.] avesse cenato con questo libro e avesse lasciato i brandelli. Poi quando arrivi lì non puoi far altro che sparecchiare e non capire niente di quello che è stato mangiato… Andando a ritroso ho ricostruito un po’ la vicenda: parte da un fatto macabro degli anni ottanta, il ritrovamento del corpo di un ragazzino senza testa. Parte proprio da un crimine davvero efferato e, ricostruendo un po’ la vicenda di questo Antonello (che è un perdigiorno) ho inserito degli elementi su cui ragiono da tanto tempo. Insomma, ho aperto po’ il mio archivio personale e ho inserito tutto quello che in realtà ho pensato in questi anni. Sai, “mi piacerebbe inserire questa scena in un film o quest’altra”. Insomma è diventata un assemblage tra me e l’opera. E tutt’ora se rileggo la sceneggiatura non riesco bene più a riconoscere quale sia mio e quale di Lolini, ti dico la verità. Quindi è come se fosse davvero una una sceneggiatura scritta a quattro mani. Direi che possiamo essere a un livello, non so, di settanta per cento di sviluppo di sceneggiatura. Quindi credo che mancherà poco

Ma esattamente in che cosa consiste “Morte Sospesa”? Perché è illeggibile?

LUCA SORGATO – Allora Lolini, per come penso di avere capito, è stato un grande furbo, nel senso più positivo del termine. Cioè ingegnoso… e anche un grande truffaldino. Un grande amante della fotocopia, grande postmoderno. E in tutto questo emerge la sua voglia anche di calcare certe correnti più avanguardistiche del passato e quindi insomma lui penso che abbia fatto questo libro anche come una sorta di virtuosismo. Togliere, oscurare, lasciarlo incompreso. Lui ha lottato con questo romanzo per renderlo più spinoso possibile, per essere più criptico possibile. Non so per quale motivo, forse per una certa fascinazione per certe correnti americane. Lui era un grande amante della letteratura nordamericana. Di fatto la vicenda consiste nella volontà di rivendicare un crimine da parte di un uomo che poi forse non l’ha commesso. Quindi si tratta di ragionare sul dubbio, sulla colpevolezza di un individuo e su cosa sia il diritto di esistere. Cioè chi ti dà il diritto di esistere? Per qualcuno probabilmente il carcere a volte dice “tu esisti”. Se non hai la fortuna di vivere una vita più agiata il carcere è un’istituzione che ti legittima l’esistenza. In questo senso questo personaggio cerca legittimazione di esistere. Però rimane comunque sempre il dubbio fino alla fine. Cioè tu finisci il romanzo e non sai bene [come sia andata, ndr.]… è al cinquanta e cinquanta. E questa è un po’ la bellezza di questo romanzo. Guardi in un modo e dici sì e l’assassino, lo guardi in un altro e dici no, probabilmente è un essere truffaldino che voleva solo essere legittimato.

Backstage di Zio Palmiro (fotografia di beynot)

Quindi un uomo in cerca di un posto nel mondo se vogliamo…

LUCA SORGATO – Detta molto semplicemente, sì. Quello che è veramente interessante è accorgermi (nei miei piccoli riferimenti letterari) che Lolini ha tratto tantissimo da Cossery, ad esempio da I fannulloni nella valle fertile. E da Henry Miller. Secondo me Lolini ha tanto preso da Henry Miller! Ci vedo un volere essere il Cossery italiano o l’Herry Miller italiano. Ecco a me questa cosa mi fa impazzire perché vedo tutta la sua umanità e la sua goffaggine. Mi ci ritrovo ecco: il volere quest’arte della fotocopia.

Cosa vorresti riuscire ad ottenere con “Il tagliateste”? Io parlo proprio di risultato di risultato finale, quello che il pubblico contemplerà. Cos’è che ti aspetti di ottenere?”

LUCA SORGATO – Vorrei cercare di ottenere la stessa fascinazione che ho io guardando un film come Giorni Contati di Elio Petri. Aprire a un pubblico che magari lo prende come un piccolo film fatto in modo mediamente indipendente. Cercare di ottenere una sorta di pubblico che possa apprezzare un film fatto in piccolo e che affronti certe tematiche sicuramente esistenzialiste, ma anche grottesche e noir; quindi anche con questa sorta di fascinazione del crimine efferato, dell’ambientazione anni ottanta. Riprendere questo e farlo apprezzare in modo molto semplice, senza creare un meccanismo cinematografico che miri all’intellettualismo. Cioè andare più nel cinema quasi di genere, passami il termine. Se il grottesco e se l’esistenzialismo potessero essere un genere, allora si dovrebbe andare in quella direzione lì. Anche perché secondo me Giorni contati è questo. È un film di genere. Cioè di genere grottesco e tragicomico quindi anche una riflessione sulla morte, però in chiave ironica. Magari metterci qualche elemento de L’assassino sempre di Petri. E mi piacerebbe prendere questi riferimenti, Lolini, il mio contributo personale, mettere assieme e cercare di fare questa sorta di “collage bianco e nero fotocopiato”, che qualcuno prende guarda, per poi dire “okay, questo è un buon lavoro”. 

Quindi una sorta di album a film, se vogliamo

LUCA SORGATO – Una sorta di collage.

Elio Petri, visto che l’ha citato più volte, è un uomo che alla fine non parlava certamente al pubblico d’essai. Però nonostante questo il d’Essai adesso noi lo vediamo come qualcosa di elitario e tutto il resto. Ma il d’essai, bene o male, è aperto a chiunque lo voglia vedere.

LUCA SORGATO – E questo è che mi interessa. Creare veramente una sorta di interesse comune. Deve essere un film anche tanto di ambientazione, di atmosfera. Cioè un film che può essere apprezzato anche da una persona che solamente ama gli anni ottanta: quel tipo di stazioni di sudiciume. Diciamo anche un approccio più romantico, una visione più vintage. Magari anche una persona a cui non interessa Lolini, che non gli interessa Petri… Che però ama quel mondo del recente passato.


LA SUPERBA INVENZIONE DI GRUNF

(Parliamo un po’ di grottesco. L’arte della fotocopia. Sarebbe bello riuscire a fotocopiare “Giorni contati” di Petri. Quanto è bello “Alan Ford”. Il Cinema è un’invenzione di Grunf.)

Custodi del cimitero si aggirano come proprietari e, come cercatori d’oro, rimestano e trafugano i tesori terreni lasciati dai morti”(Inquadratura tratta da Zio Palmiro)

Il grottesco è un elemento di rottura rispetto alla “Trilogia”. Perché la trilogia aveva questo sguardo mi verrebbe da dire particolare, in quel caso avevi uno sguardo molto più, consentimi, pacifico… molto più placido, sugli ultimi e le situazioni al limite. Seguivi il protagonista dando un tocco esistenziale al tutto, quasi metafisico, metaforico, molto surreale. Sì, anche qui (“Zio Palmiro”) c’è il surreale però inserisci il grottesco appunto. E quando uno inserisce il Grottesco non può più rimanere così placido. È impossibile. Tu passi addosso al corto questa patina e da queste “esistenze al limite” tiri fuori lo squallore. Mi verrebbe da dire lo squallore dell’anima. 

LUCA SORGATO – Sono molto d’accordo con la tua considerazione ed è quello che ci vedo anch’io. Nonostante sia sempre stato un amante del grottesco, mi accorgo che in realtà quello che penso è di arrivarci piano piano. Per cercare di far le cose in una certa maniera (e per una sorta di rispetto) è come se avessi voluto arrivarci piano piano. Io sono contento ora di avere aperto la porta del grottesco, ma non ti nego che quella porta lì la guardavo da tempo! Cioè mi dicevo “come faccio ad aprirla?” “C’ho il mazzo di chiavi, qual è la chiave?” “Cioè non voglio sfondare la porta”. Voglio arrivarci delicato”. E credo che rispetto alla Trilogia, rispetto anche a dei corti che ho fatto in passato – ad esempio Ricordino che è un piccolo corto di tre minuti che avevo realizzato dieci anni fa circa – ci sono degli elementi ricorrenti, che si intersecano con il grottesco; che però sono sempre stati comunque più velati. E hai ragione quando dici che ora questa cosa è più forte. È un po’ come se avessi aperto questa porta. E non ti nego che col Tagliateste ci entrerò proprio dentro questo questa stanza che è il grottesco, perché è l’elemento che mi interessa di più in assoluto nel Cinema, assieme anche al lato noir. Mi piacerebbe che le due cose trovassero un incontro. Ad esempio L’assassino di Elio Petri è un film che contempla il grottesco e il noir. Ecco questa combinazione è esplosiva! Il grottesco è qualcosa che io sto cercando di fotocopiare da un autore (ad esempio) come Petri. Io proprio cerco di vederlo e fotocopiarlo. Credo che ci sia anche una sorta di “arte della fotocopia” nel mondo contemporaneo. Anche Petri a suo modo avrà fatto questo, anche Lolini…

Parli del postmoderno… prendere dal passato e reinterpretare

LUCA SORGATO – Ovviamente! Ovviamente! La novità non esiste. Chi cerca il nuovo ha fallito, ma anche anche prima del postmoderno. Sì. Il “nuovo” è fallimentare. Il nuovo è solo un’ostentazione del sé. Cioè dell’ego. Il “nuovo” non esiste. Dobbiamo renderci conto che noi fotocopiamo e accettare l’arte della fotocopia. E per me il grottesco è la copia per eccellenza. Quindi l’arte di fotocopiare il grottesco da autori come Petri, João César Monteiro, Kaurismäki, lo stesso Ferri. Quindi credo proprio che tu abbia ragione perché in realtà la Trilogia non li aveva questi elementi così spiccati di grottesco. Renato Ansaldi era un attore grottesco. Cioè aveva una corporeità, la sua architettura corporea, la carne, le ossa, il naso, i denti, le mani di Renato erano grottesche, totalmente, non serviva altro che filmarle e lui era un corpo cinematografico che io non ho dovuto assecondare o filtrare. Cioè lui aveva già questa sorta di filtro suo. Semplicemente ho dovuto lavorarci al contrario con lui perché ha dovuto per lo più togliere. Renderlo più statuario, perché se no risultava troppo entusiasta. Quindi renderlo più “metafisico” come dicevi tu prima. Ora invece abbiamo aperto questo piccolo squarcio nel grottesco e spero veramente di entrarci con tutto il garbo possibile, perché è stato affrontato da autori immensi. Da maestri. Ma poi anche Ferreri, Scola, anche se poi alla fine quello che amo di più è Petri. Certo, lasciando perdere un po’ più i suoi film più conosciuti non penso di amare un film come amo i Giorni contati. Giorni contati di Petri è il film perfetto. E io vorrei rifare quel film, in un certo qual modo. Se parliamo di grottesco proprio parliamo di Giorni contati e di Buone notizie. Giannini in Buone notizie è l’emblema del grottesco. Cioè è proprio il culmine. Non c’è altro. Cioè più di quello non esiste niente.

Il custode del cimitero (Inquadratura tratta da Zio Palmiro)

Direi che il grottesco in modo molto inconfessato lo amiamo molto qui in Italia. Tra l’altro a questo proposito, molte situazioni di “Zio Palmiro” mi sono sembrate quasi ad un passo dall’ “Alan Ford”… non so se fosse voluto…

LUCA SORGATO – Guarda, io ti dico solo questo. L’unica vera passione della mia vita, non sto scherzando, al di là del Cinema, che è un mezzo per esprimersi e mettere in scena il grottesco… Prima di Lolini, che è veramente un oggetto di studio approfondito… L’unica vera folgorazione della mia vita è Alan Ford! Ecco il grottesco di Alan Ford è un culmine, come quello di Petri. È davvero una folgorazione. Alan Ford è veramente… non ho mai amato niente così in vita mia, penso. 

No ma poi su certi numeri il tono è proprio disperato. Qualcuno lo ha paragonato “Fantozzi”, ma per me nemmeno i primi “Fantozzi” di Salce riescono a toccare le vette inquietanti di “Alan Ford”. Magnus e Bunker venivano pur sempre dai “fumetti neri” (Kriminal, Satanik)

LUCA SORGATO – È perfetto. io non vedo nella vita niente di meglio di Alan Ford. Il primo numero che ho comprato era il 94 e si chiamava Il prigioniero di Morgana e c’era Superciuk imprigionato da Morgana. Quindi due cattivi e uno imprigionava l’altro. È stato il mio primo numero di lì poi sono andato a ritroso. Ecco ad esempio Renato Ansaldi era assolutamente un personaggio alanfordiano! Renato Ansaldi è uscito dalla matita di Magnus! Mi ha colpito perché era praticamente disegnato. Era veramente un personaggio di Alan Ford in carne ed ossa, sia esteticamente, sia al suo interno. I suoi modi di fare, una sorta di gentilezza finta, truffaldina.

[Qui il redattore e l’intervistato si abbandonano in una lunghissima chiacchierata su “Alan Ford” e Magnus. Chiediamo al lettore di comprendere questo trasporto, non capita spesso a due fan sotto ai cinquanta anni di età di incontrarsi e parlare di questo straordinario fumetto. Di questa discussione, che comprende anche un appello del redattore a convincere Luciano Secchi, in arte Max Bunker, a dare una possibilità al regista Sorgato per una trasposizione di “Alan Ford”, riportiamo questo passo]

LUCA SORGATO – Il cinema è un’invenzione di Grunf [lo squattrinato e anziano inventore del “Gruppo TNT”, l’organizzazione di spionaggio protagonista della testata ”Alan Ford”, ndr.]… Il cinema è questa artificiosità, la costruzione del meccanismo. Questi elicotteri fatti di legno che poi non volano o volano male e poi si schiantano. Questo è cinema. Non è la perfezione della realtà, è un meccanismo totalmente inventato. Un’invenzione di un personaggio come potrebbe essere Grunf che genera un elicottero di legno con le pale di plastica che si schianta al suolo dopo qualche metro.

Io ci metterei un piccolo attaché. Spesso il cinema più bello è simile a quel tipo di invenzioni sgangherate di Grunf che, non si sa come diavolo sia possibile, funzionano!


POST SCRIPTUM

(Ragioni di un titolo.)

Raccontami… Raccontami com’è l’idea di essere selezionati al Torino Film Festival…

LUCA SORGATO – Non posso negare comunque che ci sia grande soddisfazione in questo senso. Quindi sono molto contento di essere lì, di andare… perché significa che anche un festival così importante apprezza le tue opere, le tue realizzazioni. Poi in effetti è bello anche andare per spiegare un po’ meglio “di cosa si tratta”. Che poi [Zio Palmiro, ndr.] è un film che deve necessariamente essere accompagnato da una fase “spiegazionale”, dal momento che si tratta di una sorta di spin-off di un lungometraggio che stiamo sviluppando da un paio d’anni. Quindi sono entusiasta di andarci. Non ho molte aspettative, sono più dell’idea di andar là e spiegare ciò che ho fatto, ecco… 

Diffondere un po’ di Lolini…

LUCA SORGATO – Sì esatto. Quindi ritorniamo sempre un po’ “sul luogo del delitto”. Disseppellire un autore che in realtà era seppellito e stava bene così. Quindi c’è una sorta di dubbio costante, il pensiero di aver fatto bene o male. Forse nessuno dei due… Forse non c’è né bene né male in questo senso. Ma era troppo… bello per lasciarlo lì. Era troppo bello questo mezzo cinematografico, questo meccanismo che lui crea nelle poesie o in ciò che ha scritto. Era impossibile lasciarlo lì, secondo me. È per questo che alla fine l’ho “disseppellito” per così dire. Poi non sapremo mai se lui in effetti lo avrebbe apprezzato o meno. Comunque andare a “Torino” [significa, ndr.] portare questo autore e portare l’idea che ho del Cinema attraverso questo autore, ecco.

Ah comunque sappi che mi hai appena dato il titolo di quello che sarà l’articolo sul “MacGuffin”. “Ritorno sul luogo del delitto”, mi piace! Direi che come titolo per una seconda telefonata ci sta tutto.

LUCA SORGATO – No sì, è bello il luogo del delitto. E in questo caso, fondamentalmente il luogo del delitto è la tomba di Lolini. È molto calzante come concetto. Alla fine torno sempre lì, dove non c’è una persona in realtà. C’è un suo testamento fondamentalmente. E, per come vedo il Cinema, anch’io sto facendo una sorta di testamento. 

Marco Moroni

Nato nel maggio del 1995 a Terni, città dell'acciaio e di san Valentino. Dovete sapere che vicino alla mia città si erge, spettrale, un complesso di capannoni abbandonati. Quando eravamo bambini ci veniva detto che quelli erano luoghi meravigliosi, in cui venivano realizzati film come "La vita è bella" o "Pinocchio". Questo fatto ci emozionava e ci faceva sognare una Hollywood vicino casa nostra. Come il castello transilvano di Dracula, tutti cercano di ignorare quei ruderi ma, ciononostante, tutti sanno benissimo cosa siano e non passa giorno senza che si continui a sognare quel Cinema che nasceva a casa nostra. Chiedendomi cosa mi faccia amare tanto la settima arte, e perché mi emozioni così tanto al solo pensiero, potrei rispondermi in molti modi, ma sono sicuro che quel sogno di tanti anni fa abbia un ruolo più che essenziale.
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