
Roma. Alfonso Cuarón e il suo Amarcord messicano
Secondo giorno di Mostra del cinema, secondo film che recensisco prodotto da Netflix. Stavolta si tratta nientedimeno che dell’ultima fatica di Alfonso Cuarón, regista messicano che cinque anni fa portò in questi Lidi (risate registrate) l’acclamatissimo Gravity, poi vincitore di 7 premi Oscar.
Regista, pure, dell’adattamento di Harry Potter più bello e autoriale, non obiettate o vi pungo con un forcone.
Comunque, la pellicola presentata quest’anno dal nostro terzo regista messicano preferito (dopo Guillermo Del Toro, ovviamente, e Alejandro Gonzales Iñàrritu) dal titolo Roma è qualcosa di completamente diverso dai suoi altri film, una sorta di lunga cartolina in bianco e nero del Messico della sua infanzia.
Già papabilissimo per un eventuale premio alla Regia, Cuarón sceglie appunto l’assenza di colore e dei piani di campo ampi e articolati. Sono del tutto mancanti, infatti, close-up sui volti dei personaggi per tutta la durata, anche se il film ha comunque una protagonista ben definita: Cleo.
Ora, buona parte di noi è ignorante come un arcobaleno riguardo alla storia moderna del Messico, ma non è difficile capire vedendo il film che abbastanza frequentemente i cittadini mixtechi – discendenti dalle popolazioni precolombiane – occupano posizioni lavorative umili e di servizio rispetto alla popolazione bianca, un po’ come accade(va) per gli afroamericani negli USA.
Cleo è proprio una donna di servizio/tata alle dipendenze di una famiglia benestante con quattro figli piccoli, e durante il film la sua storia personale avrà un percorso parallelo rispetto a quella della sua padrona di casa: entrambe, in modo diverso, si troveranno infatti a fronteggiare uomini-di-merda che le mollano con grossissime gatte da pelare.
La narrazione privata è contrappuntata, sullo sfondo, dagli eventi storici, in particolare le violente manifestazioni politiche di Città del Messico negli anni Settanta.
Molti hanno paragonato il film a un Amarcord per Cuaròn, poiché per sua stessa ammissione ciò che vediamo è una ricostruzione quasi maniacale dell’ambiente familiare in cui è cresciuto, della sua casa, ed è stato girato proprio nel quartiere dove il regista ha trascorso la sua giovinezza – “Roma” del titolo, appunto. Casa e bottega.
Curiosamente, come Coco della Pixar, anche questa pellicola descrive un contesto familiare messicano fortemente matriarcale, ma a differenza del film d’animazione priva le ambientazioni di ogni colore, quasi a non voler distrarre lo spettatore con un immaginario visivo caldo e saturo fin troppo abusato nel rappresentare questa particolare terra.
Il bianco e nero è quasi quello di Rossellini e la distanza fisica che la regia prende dallo spettatore sfuma poco a poco e diventa sempre meno percettibile, fino ad accompagnare nella storia e fare empatizzare con i personaggi.
Infatti nonostante sia una pellicola cerebrale, costruita al millimetro con attenzione quasi puntigliosa, riesce nonostante tutto a comunicare quello che sembra il suo scopo ultimo: l’autenticità. Il bianco e nero di una fotografia dell’infanzia si trasforma in una pellicola mobile, calda.
Ammetto di essere passata dal seguire le vicende banali di questa famiglia in modo quasi distratto al piangere come un vitello nella parte finale. Non perché indugi in aspetti pietistici, ma perché mi è venuto molto facile a un certo punto identificarmi nelle emozioni di Cleo. Nota significativa: Yalitza Aparicio, l’interprete della giovane mixteca, è un’attrice non professionista. Se non me lo avessero detto, però, non l’avrei immaginato.
Potrete vederlo anche voi sulla piattaforma Netflix a dicembre. E se nel frattempo non vince qualche premio qui, mi mangio la bombetta come Rockerduck!