
Pulp Fiction – Schizzi di Tarantino
Il film che ha cambiato il cinema. Il capolavoro di Tarantino e forse il migliore di tutti gli anni Novanta: il MacGuffin vi racconta il leggendario Pulp Fiction.
Prologo
Da dove si può cominciare a raccontare Pulp Fiction? Da che verso prendere un’opera del genere? Gente, parlare di Pulp Fiction è un po’ come scomodare la Gioconda, cioè qualcosa di così immenso e radicato a fondo in un certo tipo di cultura che diventa impossibile scinderlo da essa.
Avanti, sono serio: da dove dovrei iniziare?
Mentre vi arrovellate provo a dirvi la mia: l’unico modo è cominciare da sé stessi, dal proprio punto di vista. Fingere di essere oggettivi quando non si vuole. Mi piace.
Ho due ricordi ben precisi legati a Pulp Fiction.
Ricordo numero 1: ci sono io, sono seduto a terra davanti a un mobile ricolmo di VHS (effetto retrò dei ruggenti 90’s, fai la tua magia!). Avrò avuto nove/dieci anni, non di più. Cerco qualcosa di nuovo, ma ormai ho visto tutto! Tutto! Mi sono fiocinato l’intera collezione di mio zio, quand’ecco che rimestando mi capita tra le mani la cassetta più in fondo (e forse non a caso). Sulla copertina c’è una ragazza con un caschetto di capelli neri, sta sdraiata su un letto, una sigaretta tra le dita e mi guarda ammiccante.
Non so perché, ma la rimetto al suo posto. Dal me-bambino che si era guardato (di nascosto ovviamente) roba come Arancia meccanica, Alien e L’esorcista non me lo sarei mai aspettato. Non era il momento giusto forse.
Ricordo numero 2: sono passati nove/dieci anni. Fa un freddo cane, non ho casa libera, ma ho voglia di vedere un film con gli amici, così l’idea geniale. Prendo il PC, metto un film sulla USB e chiamo due compagni di merende. Si tratta del nostro guilty-pleasure: film in macchina, sigarette e Moretti gelata. Il drive-in ai tempi dei multisala.
Quella sera, non so perché, avevo deciso che avremmo guardato Pulp Fiction. Non c’era un vero motivo: forse semplicemente era troppo tempo che rimandavo.
Lo schermo si illumina, le sigarette sono girate: siamo pronti a rimanere intrappolati lì dentro…
Capitolo 1: Nessuno è pronto
Adesso che ho cominciato e che sto scrivendo di buona lena mi sento più sicuro di me. Mi gaso, mi prendo bene, ma vi dico già che niente da fare: non starò a raccontarvi la trama. Se non la conoscete son tutti cazzacci vostri, miei adorati. Diciamo che se non avete mai sentito parlare di Pulp Fiction vi meritate il Grande Fratello.
Già, perché Pulp Fiction ha inconsapevolmente cambiato le regole, le ha prese a pistolettate in faccia una dopo l’altra, perché nel 1994 nessuno era pronto a una cosa del genere. Pulp Fiction ha dato modo al suo autore di mettere in chiaro una volta per tutte che il successo clamoroso de Le iene non è stato un caso. Con Tarantino non stiamo parlando di un brocco che ha imbroccato il film d’esordio. Con Pulp Fiction lo zio Quentino ridefinisce il cinema stesso.
Dunque lo ammetto: nemmeno io ero pronto, perché come si fa ad essere pronti di fronte a un film che riesce a toccare così tante corde, che riesce ad essere così memorabile. Ogni battuta, ogni fotogramma sono un cazzotto alla noia, tanto che ti scopri a sorridere come un ebete al grand-guignol che va in scena. Perché con Tarantino è sempre così: se hai un minimo di gusto, un minimo di senso di cosa è il cinema in fondo in fondo lo sai, lo senti, lo campani che con tutta quella meraviglia ti sta solo prendendo per il culo…
Capitolo 2: Contestualizziamo
E dunque da dove viene Pulp Fiction? In che contesto esplode e riverbera?
Ecco, cominciamo da una domanda: avete presente gli anni Ottanta? Ronald Reagan, Margaret Thatcher e compagnia danzante?
Se volete togliervi la curiosità armatevi di abaco e contate i vari Cobra, Commando, Cliffhanger, Kickboxer, Predator, Rambo eccetera. Scommetto che non vi ci stanno sul pallottoliere.
Gli anni ’80 erano il periodo d’oro degli eroi muscolari (vedi il cast de I mercenari), del trionfo degli steroidi, di film senz’anima fatti di “BOOM” e “RATATATATATATATA” per ebeti ignoranti e trogloditi, che non apprezzano altro se non una bella dose di botte da orbi e testosterone a stelle e strisce… e poi arriva Tarantino.
Ragazzi non è una cosa da poco: provate a immaginarvi il povero texano col Winchester sottobraccio e la bandiera sudista sul tettuccio del pick-up alle prese coi dialoghi di Pulp Fiction. Massaggi ai piedi? Frappè da cinque dollari? Tirannia degli uomini malvagi? Va bene che le pistolettate abbondano, ma che è sta roba qui? Chi è il protagonista? Chi ci capisce niente di sto casino di trama, Giuda filisteo!
Cominciamo dunque a riflettere sul fatto che Pulp Fiction sia un film senza tempo perché, prima di tutto, è un film fuori dal suo, di tempo.
Capitolo 3: Tarantino’s Cinematic Universe
Perché prima ho detto che Tarantino ci prende per il culo?
Perché è un maestro dell’illusione: ci rovescia addosso parole, parole e parole che ognuno di noi ha sentito e pronunciato. Chiacchiericci inutili e volgari come rutti, che fanno da sottofondo alle colazioni nelle tavole calde. Tarantino le registra e ce le riporta fedelmente, facendoci credere che quella roba lì sia vera – anzi, più vera del vero! – e invece no. Bugia. Quentin da Knoxville, Tennessee, ci ha infinocchiati, perché tutto è così caricato, esagerato, pop e già sentito che smette di essere vero e diventa magia drammaturgica.
Quelle di Pulp Fiction non sono persone vere o verosimili, sono supereroi, figure di carta patinata che si muovono entro confini invalicabili dove la gente fuma Red Apple e mangia da Big Kahuna Burger.
Le sue macchiette ce la mettono tutta a sembrare plausibili, tanto che è lo stesso regista che, di quando in quando, si vede costretto a esagerare, a pisciare fuori dal vaso e fare “cucù!” per rammentarci che quelli sono solo fotogrammi in movimento. Ecco allora il “non fare il quadrato” di Mia Wallace; ecco che la stessa moglie di Marcellus se ne torna a casa felice e beata dopo un’allegra overdose; ecco i dialoghi sempre più dilatati, il Royale con formaggio, ecco che tutto si rivela per ciò che è: sublime finzione.
Epilogo
Perdonate se alla fin fine Pulp Fiction è stato poco più di un pretesto, un Macguffin – ma guarda un po’ – per parlare d’altro, di Tarantino, del suo stile e del suo genio. Detto ciò non è facile provare a tirare le fila di questa che è una non-recensione, ma semplicemente un insieme di impressioni, in perfetto accordo col film. Così come Tarantino non voglio fare moraline del cazzo: non c’è posto e non ci servono.
La mia (e sua) attenzione è fissa su altro: sui suoi personaggi, sui loro discorsi torrenziali che si affastellano in impalcature bizzarre. Quello che gli interessa – e si vede – è divertirsi, creare situazioni e incasinarle, dare sfogo a una verve comica che innerva tutto quanto e si risolve in un’infinita sequenza di strizzate d’occhio allo spettatore.
Il regista si diverte con noi, a volte ti sembra quasi di vederlo, tutto gongolante e logorroico come suo solito, che saltella impaziente accanto a te chiedendoti: “Hai visto? Eh? Divertente, non è vero?”. Tarantino è il Dalì dei nostri tempi: un giocherellone, un eterno bambinone che ha visto tutti i film del mondo, capace di far divertire chiunque coi suoi pupazzi variopinti e volgari, che truccano incontri di boxe e cercano depositi per negri morti.
A Tarantino prima di tutto interessa raccontare, costruire personaggi e poi lasciarli fare, vedere come vanno a finire.
Per questo motivo nei suoi film torna sempre tutto, perché tutto è figlio di un calcolo senza regole, un mondo compiuto e perfetto, da cui lui attinge le sue storie di gangster e cowboy.
Grazie Tarantino per averci ricordato che alla fine la magia sta tutta qui, nella bellezza di una storia e di personaggi di cui innamorarsi.