La fortunatissima, bizzarra quanto avvincente serie tv firmata Netflix e creata da Mark Hudis (qui il trailer), si presenta come una delle più riuscite di quest’anno, e ha coinvolto un pubblico eterogeneo composto sia da giovani che da meno giovani (o da adulti mal riusciti). Su quelli riusciti non saprei, forse coglierebbero male una certa ironia, visto che degli sfortunati eventi che si susseguono, il più disgraziato di tutti sembra essere una loro certa attitudine a non capire un emerito tubo quando si tratta di ragazzini.
A tal proposito, Netflix sembra aver consacrato le produzioni di successo di quest’anno alla distanza tra adulti e ragazzi. Distanza e non divario, non è una questione di differenze, né di spaccatura generazionale, ma di sordità, di richiami ovattati, di lontananza, di miopia. Una distanza chilometrica tra ciechi e distratti genitori, tutori, custodi della fanciullezza e figli, bambini o ragazzi costretti in qualche modo all’autosufficienza (emotiva quanto pragmatica) nel cavarsela da soli in situazioni estreme. Tanto estreme quanto straordinarie, tanto straordinarie quanto ordinariamente tenute al guinzaglio dalla mancanza di intuito (e diciamo pure di empatia) degli adulti di contorno.
LA SERIE
Netflix ha riproposto le indimenticabili disavventure dei fratelli Baudelaire, con otto episodi da circa un’oretta l’uno, densi di stramberie e tragiche peripezie, condite da un’ironia nera che non si prende mai troppo sul serio, come quella di aver fatto uscire la serie di venerdì 13 (gennaio). Un giorno scelto non a caso, per gli appassionati di scaramanzia, visti gli sfortunati eventi che si susseguono nella vita dei tre adorabili protagonisti. La serie si presenta eccentrica e originale, ma a modo suo fedele anche alla penna di Daniel Handler (Lemony Snicket), autore dei 13 libri della saga letteraria, pubblicata tra il 1999 e il 2006.
LA TRAMA
Semplicissima nel suo nucleo, molto più complessa nel suo sviluppo, racconta gli sciagurati guai di tre fratelli divenuti improvvisamente orfani a causa di un incendio che ha distrutto la loro casa, uccidendo anche i poveri e malcapitati genitori. Violet, la primogenita (Malina Weissman), abile nell’ideare soluzioni e costruire piccoli marchingegni, Klaus (Louis Hynes), geniale nel ricordare a memoria tutto ciò che legge, e la piccola Sunny (Presley Smith), infante dalla dentatura più prestante di un castoro.
I tre orfani saranno però vittime delle (neanche tento celate) intenzioni del loro cattivissimo tutore, il non si sa come imparentato Conte Olaf, interpretato da Neil Patrick Harris, già noto al pubblico delle sitcom come Barney di How I Met Your Mother, qui capacissimo di tenere alla grande il confronto con il mutaforme Jim Carrey che lo aveva preceduto nello stesso ruolo, nel celebre film diretto da Brad Silberling.
Seguiranno i tentativi dei fanciulli per svignarsela dalle grinfie del crudele e strampalato Conte, che vuole sbarazzarsene per ottenere per sé la loro grossa eredità, e degli sfortunatissimi epiloghi che vedranno coinvolti amaramente i tutori che se ne occuperanno puntata dopo puntata. Inoltre, un mistero molto più ambiguo e sfuggente si insinuerà tra un episodio e un altro, sotto la guida del narratore in persona, Lemony Snicket (Patrick Warburton), che si rivolge direttamente a chi, nonostante le raccomandazioni di “non guardare”, è già rimasto incollato allo schermo.
A CHI SI RIVOLGE
Ai giovanissimi spettatori, teoricamente, nonostante i cupi momenti trattati con un‘eccentrica ironia nera introdotta bene dal già citato non guardare, cantato allo sfinimento dal Conte Olaf nella sigla di apertura, ma come scriveva l’autore della saga letteraria:
Se voi preferite dormire sogni tranquilli, vi conviene scegliere un altro genere di libro.
La verità è che piace a tutti, grandi e piccoli, soprattutto a chi adora deliziare l’occhio con quell’estetica fatta di tinte e dettagli futuristicamente vintage, che tanto fa presa sugli adoratori di Wes Anderson e sugli affezionati di Tim Burton, e che garantiscono alla serie il fascino di un’atemporalità visiva (oltre che narrativa).
L’eccentricità dei costumi, delle scenografie, dei toni di contrasto tra il bizzarro e il dark, tra il gotico e la commedia, non può che tradurre il linguaggio delle paure e dei traumi infantili, come il lutto o il maltrattamento in famiglia, per non parlare dell’assoluta distanza tra il mondo ottuso e arrogante degli adulti e quello dei bambini che chiedono aiuto come se parlassero a un muro, obbligati, da quella sordità, all’autogestione e all’autosufficienza. Adulti sì gentili, ma spiccatamente idioti, volutamente dipinti alquanto ebeti per sottolineare, forse, il vero dramma della nostra realtà familiare. A parte forse un cameriere ad un certo punto dell’episodio La funesta finestra – Parte 2, tutti i personaggi adulti della serie non c’arrivano per niente a capire le evidentissime magagne a scapito degli sfortunati giovani protagonisti, sordi e ciechi davanti ad ogni tipo di richiesta d’aiuto, omertosi inconsapevoli visto che, il più delle volte, basterebbe solo ascoltare (e denunciare).
QUALCHE ESEMPIO?
Il Signor Poe (K. Todd Freeman), il banchiere che si occupa del patrimonio dei Baudelaire, costantemente incredulo, sfavorevole, scettico nei confronti delle richieste d’aiuto, abituato a sorridere per cortesia e con i prosciutti sugli occhi davanti all’evidenza. Un esempio perfetto della categoria di adulti abituati a tener conto dei bisogni materiali e poco di quelli affettivi (Buon settimo compleanno, figlio, ecco il tuo smartphone).
Il Giudice Strauss (Joan Cusack), buona sì, gentile e affettuosa, ma accondiscendente più verso le proprie velleità da attrice che nei confronti delle richieste d’aiuto di una categoria che dovrebbe difendere anche solo per titolo. Un esempio di chi chiude troppo spesso un occhio davanti a certe tipologie di abusi (figure istituzionali comprese).
Zio Monty (Aasif Mandvi), simpatico e a modo suo protettore dei tre nipoti, ma accecato dall’ossessione di essere spiato sul lavoro. Un altro esempio di genitore che forse privilegia troppo la propria carriera rispetto alla felicità di chi mette al mondo, e anche se non lo fa con cattiveria (per carità!) si dimostra superficiale e distratto nei confronti dei reali bisogni di chi deve proteggere dalle brutture della vita, come certi disagi di cui non ci si accorge mai (non sapevo che mio figlio fosse un bullo).
Zia Josephine Anwhistle (Alfre Woodard) potrebbe essere adorabile se non fosse terrorizzata da ogni improbabile incidente domestico, apprensiva come pochi, ipocondriaca e fobofobica, tanto che tutte le paure che mette al primo posto rispetto a quelle più pericolose e sbandierate da chi dovrebbe tutelare, la rendono il classico esempio di genitore che non guarda bene il nocciolo di un problema ma grida al lupo al lupo davanti alle difficoltà sbagliate (anche la depressione è una malattia, non solo l’influenza).
L’onestà sprezzante della serie la rende in qualche modo amaramente divertente, persino confortante, perché non c’è niente di meglio, delle volte, che la verità nuda e cruda, talmente nuda da apparire buffa, per riderne almeno un po’.
Quanto alla miopia che affligge gli adulti ben riusciti, consiglierei un paio di occhiali offerti da Georgina Orwell. Di certo farebbero meno danni di diverse tipologie di ipnosi, come quelle proposte da tutto un altro tipo di serialità.