Avete mai detto addio ad un pezzo di voi stessi? Qualcosa che vi ha accompagnato per anni, che faceva parte della vostra quotidianità, che era sempre lì, pronto ad aspettarvi quando ne sentivate il bisogno, che a volte vi faceva infuriare, commuovere, stupire, insomma, tagliamo corto: che vi faceva emozionare. No, non mi sto rivolgendo agli eunuchi, ma a chi ha finito una serie TV che portava avanti da tempo, in barba a quel dannato binge watching che ha ucciso il concetto stesso di serialità (ma, nonostante tutto, io ti amo Netflix, non litighiamo più dai). Perché poco tempo fa mi è successa la stessa cosa con I Soprano, questo prodotto della santa, santissima, santerrima HBO. Ora, non me ne vogliate, ma tenterò di racchiudere la serie ideata da David Chase in questo articolo, sperando di renderle onore al meglio, perché non sarà facile, e soprattutto potrei (e potreste) incappare in spoilerz (soprattutto sul finale), quindi siete avvisati.
Diciamolo subito chiaro e tondo: I Soprano è una serie completamente anticlimatica. I colpi di scena sono ridotti all’osso, centellinati durante tutte le sei stagioni con sapiente maestria, come la lettera iniziale di quei libri antichi colorata e ricopiata più grossa, però messa alla rinfusa tra le pagine, quasi invisibile finché l’occhio non vi si posa sopra. Nessun cliffhanger tanto caro al mondo televisivo a cui la serie appartiene, nessuna attesa per la stagione successiva perché non si sapeva cosa sarebbe successo ad un personaggio piuttosto che ad un altro. Pensate solamente a quanto sarebbe cambiato, in termini di scrittura, anticipare la prima puntata della sesta stagione, collocandola come ultima della quinta. Sarebbe stato quasi normale, forse dovuto, ma sarebbe anche stato troppo facile. David Chase invece ha continuato con la sua idea di storia, e ringraziamolo tutti i giorni per favore, perché con I Soprano ha creato un capolavoro intramontabile.
La ragione è geniale nella sua semplicità: le vicende di Tony Soprano potrebbero essere quelle di chiunque. La serie è esattamente la riproduzione del reale, che qui ovviamente diventa il reale mafioso del New Jersey. Tutto ciò che accade in queste sei stagioni è plausibile, concreto, dannatamente vero, come se potesse accadere anche a noi (però magari non entrate a far parte della criminalità organizzata, almeno parecchie cose non vi succedono e non succedono ad altri, grazie). Sfido qualsiasi padre di famiglia a non immedesimarsi in Tony, qualsiasi moglie e madre a non immedesimarsi in Carmela, qualsiasi figlia e ragazza in Meadow e qualsiasi figlio e ragazzo in Anthony Junior. Perché questo racconta I Soprano: l’ordinaria quotidianità della malavita italoamericana dei sobborghi, della periferia.
Pensate a quanto sono diverse la serie e Il padrino. Il capolavoro di Coppola è un crescendo, un susseguirsi di pathos avviluppato in una spirale di sangue. Tony Soprano è invece un boss (o quasi boss) sovrappeso, che va a ritirare il giornale in accappatoio tutte le mattine, che mangia panini con capocollo e provolone all’esterno di Satriale’s (mentre Paulie Gualtieri prende il sole). La serie è il capovolgimento del film, sebbene trattino le stesse tematiche, e questo Chase lo sa bene, dato che fa specializzare Silvio Dante proprio nelle imitazioni del personaggio di Al Pacino. Ma il punto è proprio questo: se parli della vita reale non puoi sfociare nell’iperbole spesso e volentieri, devi raccontare del college di Meadow, della sceneggiatura di Chris, della prostata di Paulie e del cavallo di Ralph e Tony. E tu, spettatore, devi mettere in conto che tutte queste cose sono molto spesso fini a sé stesse, senza un necessario apporto alla trama, perché così è il mondo in cui viviamo: le cose succedono e basta, quasi sempre senza un perché. Ma solo grazie a tutte queste vicende apparentemente “inutili” ci immergiamo davvero in una vita che potrebbe essere la nostra, ci appropriamo delle vicissitudini di Tony Soprano e, maledetto il mondo, ce ne innamoriamo perdutamente.
Infatti solo così riusciamo ad entrare davvero in contatto con tutti loro, quasi fossero i nostri vicini, o dei conoscenti (non ve lo auguro eh, ma magari lo sono davvero e voi non lo sapete, pensateci). E in mezzo a tutto questo ecco l’elemento di rottura con il passato: l’inserimento della psicanalista Jennifer Melfi. A fine Anni ’90 era un grosso tabù andare in terapia, figuriamoci se a farlo è un boss di una famiglia mafiosa. Ma attraverso le sedute tra Jennifer e Tony noi capiamo il suo personaggio, capiamo che quella non è la vita che ha scelto, ma quella in cui è nato. Noi siamo soldati ripete spesso Tony, come se dovesse necessariamente fare il suo dovere, perché così è, nulla di più. Non c’è tormento interiore, ma solo una semplice accettazione dei fatti, un apatico concepimento del proprio retaggio culturale come inevitabilmente criminale. L’unica differenza tra lui e i vari Silvio, Chris e Paulie è proprio questo sguardo interiore che gli attacchi di panico lo costringono a proiettare, in perenne lotta con sé stesso e il mondo che gli gira attorno. Ma alla fine della favola Tony Soprano è e resta un criminale e un assassino, quindi nemmeno la dottoressa Melfi accetterà completamente la terapia, e soltanto alla fine capirà che, forse, ha sì aiutato Tony a guarire dagli attacchi di panico, ma ha fomentato per anni e anni la sua sociopatia.
Tony infatti non può che essere quello che è: un mafioso. E noi spettatori non arriviamo a giustificarlo, ma lo comprendiamo, tifando spudoratamente per lui in ogni occasione. James Gandolfini (com’è che era? Only the good die young?) ci regala un personaggio che passa dall’essere bidimensionale a sfaccettato e viceversa, in un percorso di vita che lo fa maturare per poi affossarlo di nuovo, che lo risolleva e… e? Non si sa, forse nemmeno David Chase ha in testa il significato profondo del finale de I Soprano. Per un semplice motivo: il significato è (passatemi il termine letterario) uno, nessuno e centomila.
So che ha suscitato polemiche, perché la gente ha bisogno di una chiusura, di una fine a lettere cubitali, ma per me il finale della serie è magistrale. Ansiogeno, poetico, evocativo, girato superlativamente dallo stesso Chase, tornato dietro la macchina da presa proprio per l’ultimo episodio. Il ristorante è un microcosmo di emozioni, una montagna russa che tiene lo spettatore con il fiato sospeso, come non era quasi mai successo. Tutto è accennato, tutto è allusivo, tutto è velatamente nascosto in modo da farci domandare cosa starà per succedere. E quindi cosa succede? Niente e tutto allo stesso tempo. Ma è la canzone stessa a darci un indizio, scelta da Tony assieme a molte altre dai titoli allusivi:
Some will win, some will lose
Some were born to sing the blues
Oh, the movie never ends
It goes on and on and on and on
Aggiungici il nome della band, i Journey, e il quadro è praticamente completo: Meadow entrerà da quella porta e la famiglia mangerà assieme, oppure l’uomo ammazzerà Tony, o il boss finirà in prigione, o sarà Meadow a morire, o un pazzo aprirà il fuoco a caso nel ristorante uccidendo tutti. O niente di tutto questo accadrà. Sta a noi deciderlo, ma la vita andrà comunque avanti.
Dieci secondi di buio e si riparte
E a proposito di serie tv, date un’occhiata anche a Serie Tv News e Serie tv, la nostra droga.