Alzi la mano chi non conosce Sex and the City, la storia di Carrie e delle sue quattro amiche: Miranda, Charlotte, Samantha e New York. La Grande Mela è spesso stata teatro per libri, film e serie, ma raramente ha avuto una tale importanza: qui non si limita a fare da sfondo alle vicende sentimental-sessuali delle ragazze, ma è a tutti gli effetti parte integrante della storia.
Ma andiamo con ordine: Sex and the City nasce dalla penna di Candance Bushnell, maestra indiscussa di quel genere chick lit tanto deprecabile quanto rilassante, e dai soldi di Darren Star, ideatore, tra le altre cose, di prodotti come Beverly Hills 90210. Cominciate a capire perché questa serie ha avuto tanto successo? Andata in onda per HBO dal 1998 al 2004, per un totale di sei stagioni e 64 episodi, Sex and the City racconta le avventure di Carrie Bradshaw, giornalista e scrittrice alter ego della Bushnell, Miranda Hobbes, rampante avvocatessa di Manhattan, Samantha Jones, avviata PR senza troppi scrupoli, e Charlotte York, puritana curatrice di gallerie d’arte.
La prima differenza rispetto alle serie convenzionali è la scelta delle attrici: siamo lontani dalle biondissime e bellissime che pure all’epoca andavano forte. La protagonista è Sarah Jessica Parker, una biondina che non supera il metro e sessanta, gambe storte e naso alla Cyrano; la sua migliore amica, Miranda, è impersonata da Cynthia Nixon, faccino scavato e capelli rossissimi; a seguire Kim Cattrall, che sarà pure bionda ma un po’ troppo giunonica, e Kristin Davis, brunetta dalla faccia da schiaffi e dai cosciotti pronunciati. Questa è probabilmente una delle principali ragioni per cui Sex and the City ha avuto tanto successo presso il pubblico femminile: meno modelle, più donne vere. Che oggi è un concetto tanto abusato da essere diventato fastidioso pure per noi femminucce, ma all’epoca era tutt’altro che scontato.
Secondo motivo del suo successo: le donne in questione sono quanto di più distante ci possa essere dalle principesse in cerca del principe azzurro. Tutte e quattro lavorano – e che lavori! -, sono indipendenti e assegnano agli uomini la stessa dignità di un preservativo in saldo. E arriviamo così alla terza ragione di cotanto successo: si parla di sesso, senza freni, e da un punto di vista squisitamente vagina-centrico. Se oggi la cosa può far sorridere, non scordiamoci che quando uscì la prima puntata era il 1998: il mondo era appena uscito dall’era delle permanenti e delle spalline imbottite, e quattro donne che in pausa pranzo si raccontano le gioie del cunnilingus facevano scalpore.
A questo va aggiunta una buona dose di promiscuità: perché se Samantha è la più disinibita, tra storie con artiste brasiliane lesbiche (una stereotipata e quindi ottima Sonia Braga), albergatori senza scrupoli (un plastificato James Reman) e attori dai buoni sentimenti (Jason Lewis) lasciati perché, appunto, troppo buoni, le sue amiche non sono da meno. Charlotte, pur con quella sua aria da verginella, rimbalza fra professionisti di vari settori, tra cui un medico troppo poco interessato alle gioie delle lenzuola (Kyle MacLachlan, che qualche anno più tardi si getterà tra le braccia di una non meno imbalsamata casalinga disperata) e un avvocato ebreo peloso e sudaticcio ma, almeno lui, attentissimo ai bisogni meno confessabili della bella gallerista (Evan Handler, che invece diventerà l’agente letterario altrettanto ninfomane di Californication). O ancora Miranda, che nonostante i traguardi lavorativi perde la testa per un barista tanto tenero quanto sfigato (David Eigenberg), lo lascia, ci fa un figlio, lo lascia ancora, si mette con un medico nerissimo, dotatissimo e bellissimo, per poi decidere che tutto sommato è meglio Steve – sa preparare i cocktail, quantomeno.
E infine, Carrie: si scontra nella prima puntata con il classico uomo d’affari piacente e sovrappeso (Chris Noth), lo soprannomina significativamente Mr. Big, e ci ballerà il valzer fino alla fine. Nel mezzo, Aidan (John Corbett), designer tanto gentile quanto inadatto – la porta a fare i weekend nei boschi, suvvia! – e Aleksandr (Michail Baryšnikov), fascinoso artista russo che proverà a portarsela a Parigi.
Ma niente da fare, il richiamo di New York è troppo forte. Dalle inquadrature panoramiche all’inizio e alla fine di ogni puntata, alla voce fuori campo di Carrie che ogni volta decanta le meraviglie di un quartiere diverso, all’ultimo episodio della quarta stagione, post 9/11 e vero e proprio inno d’amore alla città – non per nulla si intitola I Heart New York -, tutto quanto è una magnifica serenata alla città che non dorme mai e ai suoi abitanti, formiche sempre di corsa e sempre sull’orlo di una crisi di nervi, e proprio per questo adorabili. C’è tutto sul palcoscenico della Grande Mela: dall’immancabile, isterico e coloratissimo amico gay Stanford, al secolo Willie Garson, ai businessman e agli avvocati tanto ricchi quanto soli, agli autodefinitisi artisti che non si sa bene cosa facciano ma intanto vedono gente e organizzano cose, alle patinate e spietate direttrici di Vogue. Ci sono pochi poveri, praticamente nessuno: quando una delle amiche è in difficoltà l’altra impegna un diamante, per dire. Ma d’altronde Carrie tiene una rubrica di sesso sull’immaginario New York Star, mica uno spazio su come risolvere la fame nel mondo.
Frivola e brillante al punto giusto, Sex and the City non dimentica però di omaggiare l’unico valore davvero importante: l’amicizia. Perché gli uomini vanno e vengono, e forse ha più senso fidanzarsi con una città che con uno di loro, ma le amiche, quelle non passano.
Tralasciando i dimenticabili film in cui le quattro donne sembrano aver dimenticato tutto ciò che hanno giurato nelle precedenti stagioni e l’altrettanto dimenticabile The Carrie Diaries, dove una scrittrice in erba ci fa rimpiangere le donne mature e in carriera dei primi Anni Duemila, Sex and the City si è guadagnata, e a ragione, ben sette Emmy Awards e otto Golden Globe. Se siete tra i marziani che ancora non l’hanno vista, si avvicina il periodo giusto per recuperarla.
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