Film

Si muore tutti democristiani: il Terzo Segreto di Satira approda al grande schermo

“Forse sono di sinistra solo perché ho fatto il liceo classico”: per chi già conosce il Terzo Segreto di Satira, questa battuta è il riassunto perfetto di Si muore tutti democristiani. Per chi ancora non li conosce, occhio, che in sala vi partirà una risata grassissima.

Si muore tutti democristiani è il primo film del collettivo satirico che in questi anni è diventato una star del web grazie ai suoi sketch; e la loro opera prima altro non è che un collage di situazioni arcinote a chi vorrebbe professarsi di sinistra persino in questi anni. Arcinote, eppure divertentissime. Una su tutte, che poi è la trama vera e propria del film: Fabrizio (Massimiliano Loizzi), Enrico (Walter Leonardi) e Stefano (Marco Ripoldi) sono amici da una vita e da una vita tentano di campare grazie all’arte – documentari, per la precisione. Indovinate un po’? I loro lavori più impegnati vengono proiettati in cinema di periferia grandi quanto il salotto della nonna, mentre il grosso delle loro entrate, comunque scarsine, arriva dai filmini dei matrimoni. A fare da contorno, delle vite private non proprio idilliache: Enrico e compagna stanno per avere un bambino e in casa non c’è neppure lo spazio per la culla, Fabrizio viene costantemente deriso dalla famiglia della moglie che, udite udite, possiede un mobilificio e l’immancabile villetta in Brianza, e dulcis in fundo Stefano vive in un appartamento da studenti con un amico d’infanzia e altri ospiti vari ed eventuali. Desolante, vero? Per questo, quando salta fuori la proposta di realizzare una serie di documentari per la sedicente onlus Africando, per di più pagati profumatamente, ai nostri non sembra vero. E infatti: i soldi dietro alla nobile impresa non sono propriamente puliti. Signore e signori, ecco a voi l’atavico dilemma morale italiano: meglio fare belle cose con mezzi loschi o continuare ad essere duri, puri e precari?

Si muore tutti democristiani non vincerà l’Oscar, il David e neppure il Telegatto: però fa ridere, cosa niente affatto scontata quando si passa dall’Internet al cinema. I tempi dilatati vengono abilmente riempiti con una sequenza ininterrotta di gag e battute, la trama per quanto semplice regge, e i protagonisti fanno quello che riesce loro meglio: divertono con un fondo di amarezza. Il sindacato che va bene il Quarto Stato versione Duemila, ma non esageriamo con i gay che poi i partigiani ottantenni si agitano, e con un Paolo Rossi che in pochi minuti ruba la scena a tutti; Francesco Mandelli perfetto fighetto milanese, che non si capisce bene cosa faccia ma ci fa un sacco di soldi, anzi di K; il G8 di Genova che evviva Naomi Klein, ma in fondo di strada c’è la casa al mare di papà.

Tra i camei spiccano Cochi Ponzoni fantasma, un Germano Lanzoni Milanese Imbruttito un pelo ingessato, ma soprattutto Peter Gomez, Andrea Scanzi e Lilli Gruber (Lilli Gruber!), gigionissimi nel ruolo di sé stessi. Sulla sfondo una Milano bella come non mai – per chi ci vive è tutto un “in quel posto ci sono stato”, canzoni de Lo Stato Sociale prima che diventassero così mainstream, e gran finale con le note di Max Pezzali: la parabola della sinistra in versione musicale.

Garantismo post Berlusconi, manettari à la Travaglio, teatro sociale ma con i soldi del marito, grandi speranze e budget risicati: nel lontano 1983, all’indomani delle elezioni Il Manifesto titolava Non moriremo democristiani. Nel frattempo, un po’ di cose sono cambiate.

Francesca Berneri

Classe 1990, internazionalista di professione e giornalista per passione, si laurea nel 2014 saltellando tra Pavia, Pechino e Bordeaux, dove impara ad affrontare ombre e nebbia, temperature tropicali e acquazzoni improvvisi. Ama l'arte, i viaggi, la letteratura, l'arte e guess what?, il cinema; si diletta di fotografia, e per dirla con Steve McCurry vorrebbe riuscire ad essere "part of the conversation".
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