
Sicario
La realtà non è mai quello che sembra
Ci sono quei film che a prima vista ti sembrano dei capolavori. Non capita spesso, soprattutto perché, data l’incapacità contemporanea nel fare i trailer, prima di sederti al cinema sai già quasi tutto quello che stai per vedere. O almeno vorresti sederti al cinema, perché con Sicario le logiche di distribuzione hanno seguito la regola aurea del facciamo bestemmiare Edoardo anche in swahili e cinese mandarino. Tradotto: il film è uscito in mezza sala dove, tempo di prendere i pop-corn, l’avevano già sostituito con un qualsiasi Zalone o Natale col boss (anche se Sicario è uscito a settembre).
Sfogo personale a parte, ho quindi deciso di aspettare per vederlo, e recuperarmi prima gli altri due film “mainstream” di Villeneuve: Enemy e Prisoners (2013). Visti questi due, mi sono reso conto che il canadese con la faccia da pesce lesso stava per diventare uno dei miei registi preferiti. Poi è toccato a Sicario. E niente, mi ha fregato di nuovo, anche più di prima, facendomi ben sperare per il suo futuro progetto (cosa che ritenevo assolutamente impensabile). Ma arriviamo anche a quello, tranquilli, ci vuole un minimo di suspense. Anche se, come diceva il Sergente Maggiore Lorusso in Mediterraneo: chi vive sperando muore cagando!
Visto che ho divagato tanto, come al solito, torno a fare il canonico. La trama. Senza svelarvi troppo, vi basti sapere che Kate Macer (Emily Blunt) è un agente dell’FBI che accetta di entrare in una task-force per mettere fine all’egemonia di un boss del narcotraffico, al confine tra Messico e Stati Uniti. A guidarla ci saranno Matt Graver (Josh Brolin) e Alejandro (Benicio del Toro). Potrebbe sembrarvi un film come tanti, ma ricordatevi il titolo, e soprattutto ricordate che quando si danza sulla linea di confine, su qualsiasi linea di confine, bene e male diventano due concetti dai contorni sfumati, e pericolosamente intercambiabili.
Partiamo allora dall’ambientazione. Sicario delinea nuovamente quella realtà assurda che è vivere a Ciudad Juárez, già ricordata in Frontiera (The Border, Tony Richardson, 1982), Bordertown (Gregory Nava, 2006) e soprattutto nella serie The Bridge che, se ci dimentichiamo la tragica seconda (e ultima) stagione, aveva raccontato con cruda verità il rapporto di confine tra El Paso e Juárez. Villeneuve però non vuole entrare nel merito scandalistico di inchiesta, ma ti sbatte in faccia la realtà come acqua gelata, con uno stacco di scena si passa dall’interno di una macchina ai corpi appesi ai cavalcavia, o crocifissi sul palo del telegrafo, per citare Quasimodo. Corpi mutilati e martoriati dai narcotrafficanti, messi in mostra come monito per la gente, costretta a vivere nella paura e nel terrore di sparire nel nulla. Perché è questa l’altra dura verità: i rapimenti di giovani donne. I muri sono infatti tappezzati da volantini con volti sorridenti e ignari, che noi vediamo attraverso i finestrini della macchina in cui Kate è seduta, sconvolta e angosciata come il pubblico di fronte a tanta follia disumana.
La prova attoriale di Emily Blunt è perfetta, perfetta per farci entrare in un personaggio giusto e corretto, ma schiacciato da un mondo che nemmeno lei poteva immaginare così tremendo e malvagio. A bilanciare la sua ansia e la sua emotività c’è Benicio del Toro, che delinea il suo Alejandro solo con gli sguardi malinconicamente torvi, con le frasi a mezza bocca che ti spezzano il morale, e poi… Beh, poi non vi dico più niente, dovete scoprirlo da soli. Anche se dubito che vi piacerà quello che troverete alla fine del labirinto.
Perché Villeneuve qui vuole farci perdere, nei tunnel mentali e reali, dove nulla è come sembra e dove anche un mostro può spuntare da un angolo buio, illuminato da quel verde asettico del visore notturno. Le sue scelte registiche sono funzionali al concetto di ansia, paura e soffocamento che la vicenda costringe Kate a provare (e noi con lei). A tenere insieme il tutto, collegando i singoli frammenti di tensione, è la colonna sonora di Jóhann Jóhannsson (simpatici i genitori). Meglio usare le sue parole per descriverla, che sono decisamente meglio delle mie: il battito cardiaco di una bestia selvaggia pronta a sferrare un attacco dalle viscere della terra. Che è proprio quello che alberga nell’animo dei protagonisti, trasposto magistralmente in musica.
E poi la fotografia. Se pensate che la vicenda di DiCaprio con gli Oscar sia assurda, forse non avete mai sentito parlare di Roger Deakins. Candidato alla statuetta dodici volte per la miglior fotografia. Dodici. Mai vinta una. E non per Natale a Miami, ma per cose tipo Le ali della libertà, Fargo, Non è un paese per vecchi, Skyfall e per ultimo proprio Sicario. Boh. Comunque, un uso del colore che accentua le parti notturne, eliminando il superfluo e lasciando molto spesso lo spettatore al buio, immerso nel terrore dell’ignoto. Non so voi, ma la scena al tramonto nel deserto a me ha ricordato parecchio la marcia finale di Full Metal Jacket (dai, non devo dirvi chi è il regista vero?).
Perciò, in ultima analisi, un film completo sotto ogni punto di vista, decisamente consigliato a chiunque. Ecco, magari non ai deboli di cuore. Che Villeneuve ha sempre questo retrogusto per il macabro tanto piacevole.
Sto dimenticando qualcosa? Ah già, il prossimo film del buon Denis! Nel nerdoverso già si sa, ma sarà lui a dirigere il seguito di Blade Runner. Cioè, capite bene perché la paura fosse estrema e la minchiata rotante quasi sicura, non devo nemmeno spiegarvelo. Ora, io resto molto scettico, ma se la squadra dietro la macchina da presa è sempre questa, beh, forse non moriremo cagando.