
Sicilian Ghost Story: bello il fiocco, bello il pacchetto… il regalo molto meno
Io questa recensione non la volevo scrivere. Perché fondamentalmente speravo che Sicilian Ghost Story mi folgorasse. O, almeno, che uscito dalla sala i miei testicoli non stessero lottando come due Beyblade. Eppure sono ancora lì che fanno scintille. Di rabbia eh, dato che questo film sarebbe potuto essere qualcosa di decisamente migliore. E io proprio non volevo parlarne male. Ma mi tocca. Perché? Boh, sono nato stronzo ed evidentemente ho bisogno di farmi altri nemici nell’internet. Cari (cinque) lettori, sappiate che sarò oggettivo. Che è un po’ come la rana e lo scorpione, ma non divaghiamo.
Iniziamo allora dal primo vero problema di Sicilian Ghost Story: il titolo. Ok l’inglese, va benissimo, ma i registi Fabio Piazza e Antonio Grassadonia quel “ghost” dovevano proprio mettercelo? Perché appena una qualsiasi persona lo legge ecco che appare nella sua testa tutto un immaginario fantastico inevitabile da cancellare. No, non quello di vasi di argilla rotanti e di baci lesbo interrazziali. Ci aspettiamo fantasmi per gran parte del film, o almeno una loro declinazione. Invece il termine viene relegato a… no, non vi farò spoilerz, ma sappiate che il titolo non coincide con le aspettative che evoca.
Ma uno può anche passarci sopra se poi il film è bello. Ecco, allora vediamo subito le cose belle. Sicilian Ghost Story è perfettamente confezionato, con una cura maniacale per il comparto visivo che i fighetti iuessei devono solo stare con la bava alla bocca. La fotografia è pazzesca. Esplode nelle inquadrature in campo largo e larghissimo, combaciando alla perfezione con un grande impianto registico che, forse, soffre un po’ lo scarto tra i larghi e i primi piani. Ma quando la macchina da presa si alza a scoprire il paesaggio ecco che i colori brillano sullo schermo facendoci godere gli occhi. Piazza e Grassadonia limano gli angoli delle loro scene anche grazie allo splendido lavoro del direttore della fotografia: il sempre perfetto Luca Bigazzi. Chapeau.
Ora però vengono i problemi. In primis la recitazione. Purtroppo si sente tantissimo, e in più momenti, la quasi totale amatorialità dei protagonisti di Sicilian Ghost Story. In qualsiasi maniera la si voglia mettere è innegabile: non sono bravi attori. Meglio nelle parti in silenzio però, perché nei dialoghi si toccavano davvero livelli bassi. Complice una sceneggiatura zoppicante, molti scambi di battute risultavano affettati e rigidi. Piccolo inciso: quando parte il pippone del ragazzino con gli occhiali ero sinceramente sconcertato, roba da soffomitare. La scrittura non aiuta, dipingendo personaggi macchiettistici che stridono con il tono del film (la madre, santoddio una slava/svizzera/nonsisa che dice “amunì”, davvero non si poteva trovare altro?).

Ma allora qual è il tono di questo film? Forse è proprio questo il vero problema centrale di Sicilian Ghost Story: non averne davvero uno. Perché durante le due ore di visione mi sono passati davanti agli occhi molti richiami a Malick, Antonioni, Tarkovskij e compagnia cantante, contaminati però dal genere, definiamolo noir, della storia di mafia. Un frullato che non si amalgama come dovrebbe, stridendo sulla lavagna quando un cinema puramente art-house incrocia una triste pagina della storia mafiosa siciliana. Sicilian Ghost Story non sa di preciso dove porsi, smozzicando un po’ qua e un po’ là mentre, oltre ad aspettarti il ghost, cerchi di capire quale fosse l’intento ultimo dei due registi/sceneggiatori, sempre a metà fra l’immaginario e il didascalico (vedi la protagonista Luna/Cappuccetto Rosso).
La pellicola soffre la sua mescolanza di generi, lo scarto fra sogno e mondo reale è troppo brusco e cacofonico per non sbilanciare la sospensione dell’incredulità, mentre il film offre indizi sparsi e non propriamente raccolti: la soggettiva “fantastica”, per evitare spoilerz, viene seminata bene all’inizio, salvo poi sparire per gran parte del film facendo una capatina finale. Ah, solo a me l’ultima scena ha ricordato orridi echi mucciniani di estati che ti si appiccicano addosso?
E fatemi fare solo un inciso perché quando l’ho visto stavo diventando pazzo. In Sicilian Ghost Story c’è un’enorme incongruenza “storica”, se così vogliamo chiamarla. Una roba che boh, sarò nerd io ma non capisco come abbiano fatto a non rendersene conto. Ve la metto comunque sotto spoilerz se volete tenervi la sorpresa.
[su_spoiler title=”Spoilerz”]Il film è ambientato nel 1996, dato il fatto di cronaca nera a cui fa riferimento. Bene, quando però Giuseppe perde lo zaino gli cade una action figure di Dragon Ball, Goku per la precisione, raccolta poi da Luna. Action figure che viene inquadrata tre volte in totale. Tre. Il problema? Che quello, con i suoi capelli azzurrini sbrilluccichini, è Goku Super Sayan Blue, apparso per la prima volta nel 2015 in giappolandia nel film La resurrezione di “F”, e presente anche nel manga/anime Dragon Ball Super. Magari non se ne accorgono in tanti, però Giuda ballerino com’è possibile che nessuno abbia notato la cappellata? A meno che non sia quello il “ghost” del film. Tre inquadrature, ho urlato per ognuna. Quelli che erano con me mi guardavano male, ma oh, non ho saputo resistere.[/su_spoiler]Perciò tirando le somme di Sicilian Ghost Story cosa viene fuori? (Rima non voluta). Un film ibrido, un rabdomante che cerca l’acqua trovando una pozza di fango. Due mondi nettamente separati che cozzano a vicenda, invece di completarsi. E spiace, perché quando un prodotto italiano ha una cura così minuziosa nelle immagini ma zoppica ancora per problemi, beh, diciamo veniali, ci si chiede soltanto “chissà cosa sarebbe potuto essere”.