
Skinheads – Romper Stomper: l’esordio “nazi” di Russell Crowe
PREMESSA: Il film di cui vi parlerò oggi, contrariamente a quanto avete letto, non è esattamente il primo film di Russell Crowe. Avevo solo bisogno di un titolo clickbait con cui attirare la vostra attenzione, per cui spero possiate perdonarmi. Detto ciò, veniamo a Skinheads.
In un giorno imprecisato del 1992, il regista e sceneggiatore Geoffrey Wright aveva appena raccolto una serie di testimonianze che delineavano il fenomeno del neo-nazismo nelle periferie australiane, quando decise di usare tale materiale come punto di partenza per una sceneggiatura che darà vita a una delle pellicole più disturbanti, marce e disgustanti degli anni Novanta. Skinheads mette in scena uno squarcio di vita di una gang di naziskin di Melbourne che trascorrono le giornate a cazzeggiare leggendo il Mein Kampf e abbandonandosi a festini all’insegna di alcol e sesso, mentre la notte compiono vere e proprie incursioni ai danni di una comunità vietnamita che ha deciso di aprire un ristorante nel loro “territorio”. Il leader del gruppo è Hando (Russell Crowe), un pazzo divorato dall’odio razziale per il quale sviluppa un’attrazione morbosa Gabey (Jacqueline McKenzie), una tormentata ragazza epilettica che si unirà alla banda per sfuggire alle molestie sessuali del suo patrigno/orco. L’arrivo della giovane finirà col sconvolgere l’equilibrio e l’esistenza stessa della banda.
Alla prima visione, il film mi è risultato decisamente inquietante, e nella descrizione del degrado giovanile mi ha trasmesso quasi la stessa sensazione di sporco e disagio provata guardando la trasposizione di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. La follia quasi bambinesca del razzismo, l’insensatezza della violenza e la successiva ricerca di redenzione (evito di spoilerare troppo perché questo film l’abbiamo visto in pochi) vengono raccontati con uno stile grezzo e sporco, distaccato, gelido e grigio come la sua ottima fotografia. Tuttavia ci sono diverse accortezze poetiche che elevano il tutto su un livello ammirevole, come ad esempio l’accostamento basilare ma significativo tra due scene di sesso opposte l’una dall’altra per dinamica e sentimento.
Russell Crowe, magnifico e carismatico protagonista già a 28 anni, conferisce una spessa ambiguità perversa al suo protagonista con lo stesso rigore recitativo che lo porterà, otto anni più tardi, a vincere un Oscar per quel capolavoro che è Il Gladiatore, ed è in lui, e nel suo rapporto sia con Gabey che con il suo braccio destro Davey (un bravissimo Daniel Pollock) che si trova l’essenza di tutte le cose. Se si sorvola sulle ingenuità di una sceneggiatura acerba ma compensata da un estremo realismo, in Skinheads si possono ritracciare riferimenti seminali (voluti?) sia a certo teatro alto (da Riccardo III di Shakespeare alla tragedia omerica con le sue contraddizioni omoerotiche alla Achille e Patroclo) che ad Arancia meccanica di Kubrick per come viene messa in scena la violenza di gruppo.
Il finale, ruvido e sarcastico, è un prodigio di dramma e ironia che cesella la caustica crudezza di una cronaca su una realtà spesso trascurata che è anche racconto di una ricerca dell’innocenza perduta. Un vero cult del noir, graffiante quanto il linguaggio della strada, non immediatamente accessibile ma da riscoprire.