
Sleuth: Kenneth Branagh, Michael Caine e Jude Law per un manuale di estetica
Ci sono quattro colonne portanti che possono invogliare alla visione di un film: il nome del regista, quello degli attori principali, quello dello sceneggiatore e qualche chicca sulla scenografia. Ebbene, ecco nell’ordine su cosa si regge Sleuth – Gli Insospettabili, anno 2007: dietro la macchina da presa c’è Kenneth Branagh; davanti, per quasi un’ora e mezza, soltanto Michael Caine e Jude Law; le battute le ha scritte nientemeno che il premio Nobel Harold Pinter, rimaneggiando l’opera teatrale di Anthony Shaffer; e gli ambienti firmati Tim Harvey sono a metà fra un’astronave, un saggio di architettura e un compendio di arte astratta. Last but not least, Sleuth è il rifacimento dell’omonimo film del 1972, dove c’era sempre Michael Caine, ma nei panni del protagonista più giovane. Pane per i denti di qualsiasi cinefilo o sedicente tale, insomma.
Pane che, almeno per il primo dei tre atti di cui si compone questo film che potrebbe benissimo stare sul palco di un teatro, è gustosissimo: Sleuth racconta la storia di un famoso scrittore un po’ agé la cui moglie, spesso nominata ma mai inquadrata, si diletta con un bel parrucchiere e aspirante attore un filino spiantato. Lo scrittore invita nella sua lussosissima casa il parrucchiere, gli fa sottilmente notare la differenza economica e soprattutto sociale che li separa, lo invita a rubare dei gioielli dalla sua cassaforte per fregare il fisco, riuscire a mantenere la compagna piuttosto dispendiosa e liberare lui di una consorte ormai sgradita, salvo poi iniziare un sottile e perverso gioco al massacro che si fa via via sempre più crudele.
Un primo atto riuscitissimo, dicevamo; peccato però che nel secondo e soprattutto nel terzo Sleuth diventi prima artefatto, poi inverosimile, infine decisamente sopra le righe, e con eccessi di psicosi e torbidume non richiesti. Il che è strano, considerando che sia Branagh che Pinter sono noti per il loro humour sì spietato, ma sempre e immancabilmente raffinato e british; si vede che l’esigenza di épater les bourgeois ha sopraffatto l’eleganza.
Ma non fraintendetemi: Sleuth rimane comunque un gran film, da vedere se non altro per rifarsi gli occhi e per ricordarsi cosa vuol dire recitare. La scenografia, dicevamo, è un vero e proprio balsamo per la vista: ambienti spogli e vastissimi, inquadrature così simmetriche da sembrare un trattato di ingegneria, colori freddi per passioni bollenti, giochi di specchi e intrecci di linee verticali e oblique che rimandano al migliore Hitchcock. Caine e Law fanno a gara a chi gigioneggia di più: il primo maestoso e sornione, il secondo spavaldo e fascinoso.
Un libretto di istruzioni su come passare dal teatro al cinema e ritorno, un manuale di recitazione, un inno all’arte: Sleuth non brillerà per verismo, ma è estetica elevata al quadrato.
Non resta che una cosa da fare: recuperare l’antenato del 1972, e dilettarsi in un “trova le differenze”. E soprattutto: ma quanto si sarà divertito Michael Caine, a distanza di 35 anni?