
Snudali ancora una volta Hugh: il brutale e toccante addio di Logan
“I hurt myself, today…”
Che era un po’ il leitmotiv di quando abbiamo deciso di guardare X-Men le origini – Wolverine e Wolverine – L’immortale. Forse James Mangold, il regista di questo Logan – The Wolverine e anche del sopracitato secondo capitolo giapponese, sapeva benissimo cosa aveva creato. E voleva fare penitenza. Tanta penitenza.
Però ha deciso di farla a modo suo, sbattendosene alla stragrande di tutto e di tutti. Andando dritto per dritto, citando un noto filosofo italiano. E, a volte, succede che intestardirsi sulla propria idea dia i suoi frutti. Perché Logan alla fine è un film a sé stante, un’opera capace di reggersi sulle sue vecchie e stanche gambe anche senza tutto il parapiglia di salti temporali e boiate annesse e connesse.
Quello è solo rumore di sottofondo, un ronzio che i fan percepiscono fino ad un certo punto, che sentono fino a dove serve. Perché Logan è così: una giostra volutamente scricchiolante e malandata, che cigola come una vecchia carrucola in un pozzo. La pellicola tossisce, sputa sangue, si riempie di lividi ma rimane aggrappata alla sua storia finché ne resta anche solo un brandello.
Niente spoilerz, promesso.
L’ultimo Wolverine di Hugh Jackman è esattamente così: nel 2029 ha perso quasi ogni speranza, persa con la scomparsa della sua gente, persa con la vecchiaia, persa con una malattia che lo sfianca giorno dopo giorno. Non è più quello che manda a fare in culo giovani mutanti pieni di aspettative. Ora a quei mutanti deve cambiare il pannolone.
Perché è innegabile: il rapporto tra Logan e Xavier è forse la cosa migliore del film. Ne hanno passate troppe assieme, e non possono far finta che tutto il sangue versato, tutti gli amici morti, tutti i sacrifici (spesso vani) siano solo un soffio nel vento. Sono lì, che li fissano dall’ombra, pronti a banchettare sulla loro coscienza in ogni momento.
Per questo le battute taglienti che si lanciano l’un l’altro sono così a fuoco, per questo riescono anche a strappare più di una risata, nonostante la situazione non lo permetterebbe. Perché sono vere, autentiche, cariche di ruggine e rimorso. Logan e Xavier lo sanno, ma non hanno il coraggio di urlarselo in faccia, perché la vita li ha fiaccati anche nello spirito. Basta lottare, ci vuole solo una spiaggia dove andarsene in silenzio, lontano da tutto e da tutti.
Ma se sei Wolverine non ti è concesso. Quindi ecco che a sbilanciare la precaria situazione arriva Laura, alias X-23 (una fenomenale e incredibilmente badassica ragazzina con la faccia da schiaffi di cui non ricordo il nome Dafne Keen). Il rapporto a tre scatena tutta un’altra serie di emozioni, che Mangold sfrutta alla perfezione per sfaccettare ancora di più Logan e Xavier contrapposti al muro di ghiaccio di Laura. Lei è il futuro, mentre loro un vecchio e logoro passato.
Per questo i fumetti sono solo fumetti, e le action figures solo pupazzetti di plastica. La vita vera è tutta un’altra. Non ci sono i costumi, non c’è spazio per colori sgargianti e bandiere da indossare. Solo terra e polvere, solo sofferenza e agonia.
Logan non risparmia nulla a nessuno. Finalmente abbiamo arti tagliati, sangue che schizza e teste trapassate da sano e vecchio adamantio. Deadpool ha dimostrato che si può fare il cash anche con l’ultraviolenza, e il film di Mangold si inserisce in quella scia. Un altro cinema supereroistico è possibile (semicit.).

Certo, io sono uno di quelli che avrebbe dato un rene per vedere Old Man Logan trasposto sul grande schermo. Però con tutti i diritti da pagare forse giusto una coproduzione Papa Francesco – Regina Elisabetta avrebbe coperto i costi. Ed è qui che Mangold si merita un altro applauso. Perché non ha voluto scopiazzare la stupenda storia di Millar. Anzi, ha solo preso lo spunto iniziale per il suo Logan, suggerendo velatamente l’enorme rivelazione che c’è a metà di quel fumetto. Poi è andato per la sua strada che, come già detto, a volte paga (non sempre).
Ciò non toglie che, appena divento ricco, chiamo Matthew Vaughn (o Tarantino se mi gira), pago tutti i diritti a Fox, Marvel, Sony e chicchessia e produco Old Man Logan. Madonna se lo faccio. Poi mi suicido perché dichiaro sette volte bancarotta, ma ne sarà valsa la pena.
E quindi tutto bello e perfetto in questo Logan? Non proprio. Oh, non fraintendetemi, firmerei per altri dieci film così, però ci sono un paio di cosette che scricchiolano. In ordine sparso e senza spoilerz: il cellulare che filma dappertutto; i cambi di fuoco fin troppo marcati (che poi magari erano voluti, ma li ho trovati un po’ forzati); le proprietà dell’adamantio (ma sono io un Marvel fag); alcuni snodi un po’ semplicistici della lotta finale.
Cosucce comunque, roba trascurabile vista la potenza visiva delle immagini, la perfetta presenza scenica di Hugh Jackman che mammamia non ci sarà mai un Wolverine migliore di lui. Sento già la nostalgia che mi preme dietro il nervo ottico.
James Mangold, hai avuto le palle cubiche. Perché ci vuole coraggio a chiudere così questo ciclo, anche se Patrick Stewart e Hugh Jackman avevano detto in lungo e in largo che sarebbe stato il loro ultimo film come Xavier e Wolverine. Il saluto finale a due personaggi che ci hanno accompagnato per diciassette anni. Diciassette. Non voglio più crescere.
La chiusa di Logan è più emblematica che mai. Come se lo stesso James Howlett fosse lì a dirci che va bene così, che è tutto passato, è stato un bel viaggio, ma qualcun altro deve andare avanti. Ci stringe la mano ancora una volta, anche se non vorrebbe, anche se trema e perfino gli artigli faticano ad uscire. Ma alla fine li ha snudati, cazzo se li ha snudati.
C’è qualcos’altro da aggiungere? Solo un’ultima cosa:
P.s. trovate l’articolo anche sulla pagina dei nostri amici di Giornale7. Fateci un salto!