Credo che tra le nuove leve di registi – per quanto sia considerabile una nuova leva una regista che ha iniziato la sua attività nel 1999 ed ha già vinto svariati premi internazionali – Sofia Coppola sia forse la personalità cinematografica che più attira il mio interesse. Indubbiamente il suo approccio al cinema deve essere stato pieno di aspettative, data la figlianza d’arte che si porta appresso. Ciò non toglie, a mio parere, che la regista sia sempre stata capace di emanciparsi dall’ombra ingombrantissima del padre e che negli anni abbia sviluppato una sua personalissima poetica.
C’è da ammettere che a volte – per non dire spesso – la Coppola scivola e cade in un appannato autobiografismo e in un cinema che corre sempre il rischio di essere autoreferenziale. Ma questo, per quanto ci riguarda, potrebbe quasi costituire un vantaggio. Intendo che proprio per questo la regista ci propone ogni volta una poetica molto ben visibile e delineata, della quale andremo a discutere oggi. Certo, questo non le impedisce di spaziare tra gli argomenti più vari: dalle crisi familiari, agli sfarzi della società pre-borghese, alle tensione in tempo di guerra, all’incomunicabilità e così via.
Ciò che mi sembra resti sempre, però, è l’insistenza sul tema della solitudine che accompagna qualsiasi tipo di individuo unita ad una rappresentazione di un’America che potremmo definire “nascosta”: quella brutta faccia che è sempre meglio non mostrare in pubblico o peggio all’opinione pubblica.
Sofia Coppola parte col botto, con un film – Il giardino delle vergini suicide – che io ritengo rasentare il capolavoro. Qui le intenzioni della regista sono chiarissime fin da subito: mostrare quell’America che sul finire degli anni ’70 si stava faticosamente spostando da una società iper-conservatrice verso un qualcosa di più tollerante. Almeno negli intenti. Ciò che interessa alla Coppola però è l’impatto che questo tipo di approccio culturale ha sulla società, nello specifico sugli adolescenti.
Il suo cinema è anche spesso e volentieri un cinema di donne e in questo film la componente femminile la fa da padrona mostrando, attraverso il filtro di una sensibilità femminile mai stereotipa, tutte le contraddizioni interne alla società borghese americana.
Tuttavia il messaggio in filigrana che ci lascia la Coppola – e che in fin dei conti è quello più penetrante e performante – è che non c’è futuro nella solitudine, che l’individuo, se abbandonato a se stesso, perde sempre. Non credo sia corretto leggere il suicidio collettivo delle giovani sorelle come una cessata voglia di vivere; al contrario credo che proprio in quel gesto risieda tutta l’espressione di una profonda volontà di vita; tuttavia il prezzo resta enorme. E questo, di nuovo in filigrana, è in parte il modo in cui Lacan considerava il rapporto con l’Altro nella formazione dell’individuo.
Al suo secondo film – Lost in translation – la regista abbandona temporaneamente l’America per spostarsi in Giappone, a Tokyo. Questo è probabilmente il suo film più personale (tratto da un’esperienza autobiografica), forse il suo capolavoro, indubbiamente il mio preferito. Al di là di una strabiliante interpretazione sia dalla parte di Scarlett Johansson che da quella di Bill Murray, la pellicola vive di sguardi, parole non dette, suoni che si perdono, si intrecciano e si ritrovano.
E qui la solitudine la fa da padrona, anche se non è una solitudine letterale. I due protagonisti non sono soli, nel senso stretto del termine: sono entrambi sposati ed hanno quindi apparentemente il loro compagno di viaggio. Ma, attraverso dei giochi linguistici e rappresentativi estremamente raffinati, Sofia Coppola ci mostra che non è così. E quindi nell’apparente vita perfetta di Bob Harris (Murray) si nasconde, malcelata, una continua insofferenza, una costante insoddisfazione per ciò che è.
È proprio nel loro incontro che i due personaggi si rendono conto di essere soli: nel momento in cui incontrano una persona che per davvero riesce a comprendere come l’altro si sente, allora capiscono che nessuno li aveva mai compresi, o almeno non nel breve periodo. In più i due si ritrovano a Tokyo, isolati linguisticamente e quindi doppiamente lontani: dai (pochi) connazionali con cui, nonostante la lingua comune, non riescono a comprendersi; e da tutti gli altri, per via della differenza linguistica.
E a questo punto appare evidente, se non altro al sottoscritto, come da ciò nasca quasi per forza l’amore, che resta puro e indimenticabile perché non corre il rischio di essere macchiato.
Da notare, comunque, che l’America ha qui sì un ruolo più defilato, ma per niente secondario. Sono sottilmente ironiche le imbeccate che la Coppola rifila a una certa società perbenista e genericamente liberal americana.
Marie Antoinette è forse il film più pretenzioso di Sofia Coppola e a mio parere il suo meno riuscito. Ciononostante la poetica rimane, in un certo senso più forte che mai.
Diciamo che è il film più estetico della regista, con una messa in scena curatissima e sfarzosissima (ideale, da un punto di vista formale, per l’ambientazione) e con dei costumi di rara bellezza. Ne perde forse un pochetto la profondità dei contenuti, anche se la ciccia la troviamo anche qui.
Difatti l’immagine che ci viene restituita della regina di Francia sposa di Luigi XVI sta un po’ a metà tra una idol e una donna lasciva, a tratti femme fatale, anche se non per il marito. Ma come sempre in Coppola, la realtà dei fatti è più oscura e sfaccettata. A fronte, infatti, di una sfrenata vita mondana, il retro della medaglia ci mostra un personaggio privo di affetti e di comprensione. Per questo considero centrale la scena in cui la regina scoppia in lacrime senza potersi più trattenere: capisce di non aver nulla su cui appoggiarsi. Ammirabile, tra l’altro, l’interpretazione di Kirsten Dunst, che qui stava iniziando a farci capire che era una grande attrice.
E l’America non si assenta neanche ‘stavolta. Diciamo che in questo film la regista condensa il tema della solitudine saldandolo assieme al ragionamento sulla società: dietro allo sfarzo e alla ricchezza c’è una realtà povera che crea una situazione spiacevole all’individuo. Considerando anche la declinazione nettamente pop della pellicola sembra che la Coppola stia sempre parlando a quella società perbenista americana che fa finta di niente mentre la società dilaga.
Altro film un po’ di transizione di Sofia Coppola. In Somewhere torna prepotentemente la tematica autobiografica in quanto la pellicola si costruisce prendendo spunto dai viaggi che la regista fece in giovane età accompagnando il padre in giro per il mondo.
Senza ombra di dubbio è il lavoro in cui Sofia Coppola mette più in mostra la solitudine: Somewhere è a tratti un film quasi muto, in cui a parlare sono gli ambienti e i pensieri (non detti) del protagonista, che rantola in un abisso di disperazione senza fine e che riscopre solo nell’amore per la figlia – seppur altalenante – una ragione per vivere.
Ahimè la redenzione è negata, o almeno così appare nello svolgimento dei fatti: alla richiesta di aiuto del protagonista nessuno risponde, se non appunto la figlia, ma non su richiesta e in maniera comunque involontaria. Tuttavia il finale lascia aperti degli spiragli ad un interpretazione abbastanza libera.
L’America non è così centrale in questo caso, ma permane la volontà di mostrare la medaglia a due facce della società contemporanea, il che è perfettamente incarnato nel protagonista, che sorride davanti alle telecamere, ma piange ed è apatico rinchiuso nella sua stanza di albergo.
Ciò che a mio parere rende Somewhere un film leggermente minore – e sottolineo leggermente – nella filmografia della Coppola è la mancata finalità del film stesso. Voglio dire, nei film precedenti la cineasta aveva saputo sviluppare delle tematiche importanti portandole avanti con una poetica personale e comunque coesa e finalizzata a lasciare un messaggio o quanto meno un’impronta sullo spettatore. In Somewhere invece l’operazione sembra quasi fine a se stessa (per quanto ci rendiamo conto che non lo sia). Il rischio a cui la Coppola va incontro è quello di esporsi ad un continua e stanca riproposizione degli stessi temi sviluppati inciampando sempre nell’autoreferenzialità.
Giusto per fare un paragone non autorizzato: per quanto la filmografia di Fellini sia, tra alti e bassi, un capolavoro, è evidente come il regista dopo un po’ si sia ridotto a portare in scena sempre la sua biografia, il che per certi versi ha reso il suo cinema un po’ più spento rispetto ai primi capolavori. Sofia Coppola non è Fellini e le poetiche non coincidono, ma il rischio è di incorrere nello stesso problema.
E probabilmente la Coppola si era anche accorta del problema, infatti in Bling Ring si cambia decisamente registro. Tolta completamente la componente autobiografica, questo è una sorta di film-inchiesta, nel senso che è ispirato da un fatto di cronaca e in particolar modo da un articolo uscito su Vanity Fair riguardante la “banda di giovani criminali” definita appunto Bling Ring.
Siamo di fronte a quello che è il film più politico della regista e in cui ci vengono riproposti i suoi soliti temi ma perfettamente inglobati nella rappresentazione. Quindi a suo modo Coppola ha trovato la strada per non cadere nell’autoreferenzialità.
La centralità della società delle apparenze è evidente e si manifesta a tutti i livelli: in pubblico, nel privato e davanti alle telecamere. È davvero sottile il modo in cui la regista ci mostra le varie facce che i protagonisti assumono a seconda del contesto in cui si trovano. Ed inoltre c’è da notare che tutto si innesca da una difficoltà nell’essere accettati socialmente.
Quindi sostanzialmente Coppola ci sta facendo vedere una società che degenera ai ritmi dell’apparenza e che anziché muoversi nel senso dell’integrazione sociale preferisce isolare gli individui in difficoltà, scatenando una reazione a catena che ha effetti disastrosi e, ancora una volta, contraddittori.
Ciò dimostra come l’America abbia questa attrazione perversa per le storie alla Bonnie e Clyde
E si giunge così all’ultimo – per ora – film girato da Sofia Coppola: L’inganno, che io preferisco nel titolo originale The beguiled perché aperto a più sfumature di significato come il precedente Lost in translation, brutalizzato dall’infamissimo sottotitolo italiano L’amore tradotto.
Considero L’inganno il capolavoro formale della regista: a livello di pura tecnica il film è maestoso, da studiare nelle accademie di cinema e senza sbavature – girato tra l’altro alla sola casta luce naturale. Per quanto riguarda i contenuti, invece, siamo di fronte a una sorta di riproposizione de Il giardino delle vergini suicide.
Anche qui, come nel primo film, abbiamo un nucleo ristretto di personaggi (o forse dovremmo dire personagge, dato che sono tutte donne tranne uno) che si trovano costretti in un’ambiente chiuso. Questo, comprensibilmente, genera una serie di impulsi repressi che saranno determinanti col proseguire della pellicola, come accadeva già ne Il giardino delle vergini suicide.
Lungi da me però il dire che per questo motivo L’inganno sia un film arido o povero, anzi. Per quanto sia vero che le strutture dei due film combacino, il più giovane dei due a un certo punto prende una svolta che lo allontana con forza dal più vecchio. Questa svolta è costituita dal tema della guerra.
Da una parte la guerra – quella di secessione, ovviamente – serve alla Coppola per ribadire un tema di importanza capitale: in guerra, nello scontro siamo tutti soli. E non importa che da un lato ci sia Colin Farrell, effettivamente solo, e dall’altro un gruppo di donne, perché quelle donne agiscono come se fossero un unico corpo, guidate dal personaggio di Nicole Kidman. Quindi nella guerra tra Nord e Sud (che belli gli echi italiani di questo tema) si innesta il germe della guerra tra individui, che per la sola provenienza geografica si trovano schierati uno contro l’altro; e di conseguenza impauriti e privati della fiducia nei confronti del prossimo. Quasi non fossero più umani.
In più la guerra permette di mostrare lo scontro tra due visioni morali e tra due mondi: quello maschile e quello femminile, quello nordista e quello sudista, quello dell’uomo e quello di un uomo diverso da lui. E a mio parere il colpo di genio sta nel fatto che, incluse in un discorso etico, nessuna delle due posizioni ha ragione sull’altra: nessuna delle due fazioni in gioco vuole il male dell’altra, ma a causa della sfiducia si arriva all’aggressione e all’omicidio. Ed è in questa dimensione che gli individui si ritrovano soli, tutti i giorni.