Film

Steve Jobs: less is more

Vi siete mai chiesti cosa accadrebbe se Quentin Tarantino scrivesse un episodio di The Big Bang Theory? Probabilmente no, perché non siete squilibrati mentali come il sottoscritto. Ma se avete delle turbe psichiche, allora forse lo Steve Jobs di Danny Boyle è la risposta che stavate cercando. (Che poi, in realtà, prima di vedere il film nemmeno io mi ero mai posto la domanda).
Però, durante le lotte verbali tra lo Steve Jobs di Michael Fassbender e lo Steve Wozniak di Seth Rogen, si sentono gli echi delle dispute tra Sheldon e Leonard. La differenza abissale? Un uomo di nome Aaron Sorkin, di professione sceneggiatore.

Partiamo dal presupposto che scrivere un biopic non è mai facile, il rischio di scivolare nel limbo della noia è sempre dietro l’angolo. Sorkin però aveva già dimostrato di essere un maestro del genere con The Social Network (ed il premio Oscar giustamente meritato), perciò le aspettative erano alte, molto alte. La paura si manifestava quindi in una forma diversa, cioè che questo Steve Jobs fosse una copia del film di David Fincher del 2010: temi molto simili, protagonista geniale ma controverso, argomenti del recentissimo passato. E cosa fa Sorkin per rispondere? Alza il sipario e inizia il suo numero di magia, attirando gli sguardi degli spettatori che restano ammaliati come le falene dalle lanterne, senza però finire bruciati.

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Non fraintendetemi, il film è e resterà diretto da Danny Boyle, che accenna il suo tocco quando può, in maniera discreta ma presente, mantenendo comunque il filo conduttore dei suoi primi lavori, ma smussando gli angoli di un metodo di regia che lascia indietro alcune inquadrature da cinema indipendente per uniformarsi (in realtà non troppo) allo stile hollywoodiano.

Il re dietro le quinte è però Aaron Sorkin. Gli basta un dialogo in campo/controcampo per esaltare anche un semplice discorso tra padre e figlia, per tenerti sulle spine cercando di capire se un computer del 1984 riuscirà a dire “ciao”, il tutto arricchito dai puntuali rimandi al passato, dove la stessa scena si ripete in un contesto e in un tempo diverso, ma con i medesimi personaggi che si confrontano usando una delle armi più antiche del mondo: la parola.

Steve Jobs

Steve Jobs è un’esegesi della parola, del discorso, del confronto verbale. In un momento in cui la tecnologia sta prendendo il sopravvento e ci rende sempre più muti, Boyle e Sorkin riducono ai minimi termini la vita di colui che più di tantissimi altri ha contribuito alla transizione all’era digitale, colui che ci ha messo la musica in tasca. Lo fanno però senza scivolare nella banale biografia che dipinge il percorso vitale dell’informatico di San Francisco, cristallizzando invece tre momenti focali della sua carriera nel mondo dei computer, che si intersecano inevitabilmente con le vicende personali. Sono tre presentazioni in tre anni diversi che Jobs doveva esporre (il Macintosh 128K nel 1984, il NeXT Computer nel 1988 e l’iMac nel 1998), anzi, sono i tre preludi alle rispettive presentazioni, gli istanti di preparazione precedenti all’alzata del sipario. Perché è questa la genialità di un film che elogia l’oratoria: le tre conferenze non vengono mai mostrate. Tutto si svolge prima, tutto viene sviscerato dai contrasti tra l’assoluto protagonista della scena (interpretato da un Fassbender magnetico) e le persone che gli stanno accanto (amici, colleghi e familiari). L’ho citato prima per un altro motivo, ma anche Tarantino ha diretto un film su di una rapina dove la rapina non si vede mai. E se non sbaglio quel film era un capolavoro.

Perciò niente lezioni al college, niente primi amori, niente scene dove Jobs si piange addosso per il suo fallimento con una musica triste in sottofondo, ma soprattutto niente cancro. Sarebbe stato troppo semplice e scontato fare leva sulla malattia che nel 2011 ha spento il genio di Cupertino, ma Boyle e Sorkin sono tutto fuorché scontati.

Quindi che Steve Jobs emerge dal film? Un uomo travolto dal suo ego, convinto delle sue decisioni e inamovibile nelle sue scelte, ma che alla fine non riesce a mentire a sua figlia. Quella figlia tanto volutamente alienata perché sicuro che non fosse sua, ma per la quale avrebbe spostato il mondo. Doveva soltanto accorgersene. Perché lo Steve Jobs di Boyle e Sorkin questo è: un genio ossessionato dal suo lavoro, il cui carisma attrae gli altri mantenendoli incollati alla sua essenza, ma che non si rende conto che è proprio quella a farli soffrire, perché incapace di scendere a compromessi. Solo alla fine ammetterà a sua figlia e a sé stesso di essere fatto male, in una redenzione squisitamente hollywoodiana che però è il giusto culmine di un percorso di vita più che professionale.

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«Nessun compromesso, neanche di fronte all’Apocalisse!» diceva il Rorschach di Watchmen. Forse Steve Jobs è riuscito a fermarsi un passo prima.

Edoardo Ferrarese

Folgorato sul Viale del Tramonto da Charles Foster Kane. Bene, ora che vi ho fatto vedere quanto ne so di cinema e vi starò già sulle balle, passiamo alle cagate: classe 1992, fagocito libri da quando sono nato. Con i film il feeling è più recente, ma non posso farne a meno, un po' come con la birra. Scrivere è l'unica cosa che so e amo fare. (Beh, poteva andare peggio. Poteva piovere).
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