
Storie pazzesche per raccontare un mondo selvaggio
Premessa: il titolo originale rende meglio – strano, vero? Infatti, sebbene a ‘sto giro i traduttori italiani si siano astenuti dallo stuprare la lingua, Relatos Salvajes ha tutt’altro sapore rispetto al più raffinato, e quindi inevitabilmente più insipido, Storie Pazzesche: sarà la “j” che in spagnolo fa quel bell’effetto di raglio d’asino misto a scatarrata, saranno le “s” che si rincorrono l’una con l’altra, fatto sta che l’originale rende benissimo la crudezza di questo spietato e divertentissimo film.
Ma andiamo con ordine. Relatos Salvajes, o Storie Pazzesche se proprio non potete farne a meno, è un film a episodi, e sono uno più cattivo dell’altro. Il primo, che già non brilla per umanità, è un inno alla gioia e all’amore fraterno rispetto al resto: uno psicopatico arrabbiato con la vita riunisce tutti quelli che lo hanno fatto soffrire su un aereo, dall’ex fidanzata al professore saccente al critico un po’ troppo critico, e decide di dirottarlo sulla casa dei suoi genitori, causa prima dei suoi fallimenti.
Seguono un gangster che si ritrova per caso a cenare nel diner dove la figlia di una delle sue vittime lavora come cameriera, il peggior stereotipo di ingegnere che decide di vendicarsi di multe e più in generale delle ingiustizie sociali ma la cui nobiltà d’animo verrà compresa solo in prigione, un incidente d’auto che tira fuori il lato più meschino dei protagonisti.
E poi, le due puntate migliori: due automobilisti si rincorrono in quello che è un evidente omaggio a Spielberg e al suo Duel in un’escalation di violenza che culmina nel più inaspettato e indesiderato degli abbracci, e una sposa scopre i retroscena della sua vita perfetta nel giorno del matrimonio e decide di renderlo davvero memorabile.
L’argentino Damián Szifron non fa mistero di coloro a cui si è ispirato: gli schizzi di sangue e la violenza pulp e fine a se stessa sono di chiara matrice tarantiniana, mentre ambientazioni sudamericane e riflessioni sulla miseria umana arrivano direttamente da Almodóvar, che è anche il produttore del film. Se a questo aggiungete una spruzzata di kitsch q.b., una dose abbondante di cinismo e humour nero a secchiate, ecco che otterrete due ore di risate allo stesso tempo sguaiate e molto, molto amare.
Non per nulla nei titoli di testa i personaggi vengono accostati ad animali della jungla: e difatti il regista sembra volerci far ricordare le interrogazioni di filosofia e cose come “homo homini lupus” del buon Hobbes. C’è un rigurgito di speranza solo negli ultimi minuti dell’ultimo episodio: ma a ben vedere, forse con quella scena Szifron voleva soltanto ribadire che l’uomo altro non è che una bestia, e che pertanto agisce solo secondo istinti ferini e imprevedibili.