
Suburbicon, ovvero la xenofobia razziale secondo George Clooney
So bene che piazzare questo film nella categoria “in sala” è audace e malevolo, in virtù del fatto che la sua prima uscita nelle sale italiane è datata 14 dicembre 2017; ma ahimè burocraticamente è la cosa giusta da fare dato che alcune sale proiettano ancora oggi Suburbicon. Prima di iniziare voglio precisare che questo è il primo film di Clooney regista che ho visto, quindi parlerò scevro di citazionismi e di riferimenti interfilmici. E nel caso non foste soddisfatti potrete sempre appagarvi col fascino maschio del buon George.

Ho recentemente scoperto che oltre a fare la pubblicità della Nespresso George Clooney sa anche fare il regista, e l’ho scoperto proprio grazie a Suburbicon. Come al solito i film che a me piacciono assai vengono sminuiti dalla critica: IO HO RAGIONE, VOI NON SAPETE UN CAZZO. Ma andiamo a fare una breve genesi dell’opera.
Nel 1986 gli spregiudicati fratelli Coen (Fargo, Il grande Lebowski, Fratello, dove sei?) stendono una sceneggiatura preliminare per un film; per ben 20 anni quella sceneggiatura viene totalmente ignorata per motivi a me sconosciuti; il buon George si sveglia un giorno e dice “sai cosa? Voglio usare quella sceneggiatura”. Questo è all’incirca il processo che ha portato alla creazione di Suburbicon.
Sì, la sceneggiatura è (anche) dei Coen: questa è una cosa figa e indubbiamente si fa sentire nello svolgimento della trama. Un po’ come un uomo di 250 kg si fa sentire su una sedia di legno degli anni ’40, con la differenza che per il film l’esito è stato produttivo, per la sedia non altrettanto. Ma oltre a ciò cos’è che mi ha fatto uscire dalla sala così soddisfatto di questo film?
Interpretazioni
Non è tanto una sorpresa visto l’apparato attoriale che Suburbicon offre: Matt Damon, Julianne Moore (in un ruolo piuttosto particolare) e Oscar Isaac su tutti. Per quanto io odi con tutto il mio cuore non apprezzi particolarmente Matt Damon, devo ammettere che lui (in un ruolo atipico) e la Moore su tutti si sono guadagnati una nota di merito per l’interpretazione.
La cosa da sottolineare maggiormente, però, è la connessione che si instaura tra tutti i personaggi principali, dei quali il film non può, in nessun caso, fare a meno: la trama (e di conseguenza il significato) si sviluppa per mezzo esclusivo dei protagonisti e delle azioni che essi compiono nel corso del film. Giochi di sguardi, false rivelazioni, note umoristiche da non tralasciare, relazioni negate o obbligate, sono tutti elementi che ci permettono di costruire un senso durante la visione; e a questo gli attori danno un contributo inderogabile. Però Matt Damon torna magro per carità che sembri il quarto porcellino.
Clima coeniano

Come detto in precedenza la mano dei Coen si sente, eccome. Suburbicon è pervaso da un sottotesto costante di umorismo che si controbilancia ottimamente con la crudezza spietata (ma anche ilare, per l’appunto) di alcune scene. Inutile dire che la trama si regge perfettamente su se stessa creando una sorta di thriller/humor nero che spesso è caratteristico della coppia di sceneggiatori. E chiaramente i Coen non fanno le cose senza cognizione di causa, quindi, intrecciandolo con il suddetto sottotesto umoristico, garantiscono al film una coerente linea critica affilatissima. Ma a questo ci arriveremo dopo, che se no vi tolgo tutto il gusto della lettura attenta. O almeno è quello che spero.
Paletta cromatica

Credo che la cosa che più mi ha lasciato soddisfatto una volta uscito dalla sala sia la fotografia, e in particolare la paletta di colori che è stata utilizzata per realizzarla. Queste gamme cromatiche molto accese, molto vive e sature, che stanno a metà tra quelle di Edward mani di forbice e quelle dei film di Wes Anderson (Fantastic Mr.Fox, Moorise Kingdom, Grand Budapest Hotel tra gli altri). Sono colori, questi, che trasmettono un senso di pace e tranquillità mista a libertà. E per chi ha visto il film sa quanto questo costituisca un’antitesi. E perciò non sorprende che il direttore della fotografia sia quel Robert Elswit che ha fatto del suo sodalizio con Paul Thomas Anderson la sua consacrazione artistica, portandolo a vincere un Oscar per Il petroliere. Complimenti a te Robert e al tuo cognome decisamente buffo.
Critica razziale (e anti-Trump): la cittadina di Suburbicon
Di film contro il razzismo ne abbiamo visti abbastanza da romperci il cazzo e desiderare un siringone di metadone, soprattutto quando il razzismo stesso diventa un pretesto di buonismo strappalacrime e talmente telefonato che in confronto quelli della Vodafone sono dei pivelli. Chiedo scusa. A questo punto preferisco nettamente un film dove i neri sono sottomessi e maltrattati, tipo Django Unchained. Non era un commento razzista, lo sapete.
Tuttavia Clooney ha trovato un modo in Suburbicon di “svecchiare” il tema antirazzista in modo da renderlo accettabile e, cosa ancora più importante, nonostante sia il tema principale del film, esso non è ribadito ogni 14 secondi, ma anzi viene reso esplicito solo poche volte e in modo comico, il che costituisce già di per sé propaganda antirazziale. Infatti il focus della macchina da presa di Clooney è per tutto il film rivolto ad altro, a quell’altra situazione che caratterizza il film e che permette di ottenere un duplice effetto: dal lato dello spettatore i personaggi di Suburbicon sono distratti da ciò che avviene nella linea principale della trama proprio perché più concentrati a scacciare una famiglia di persone di colore; dal lato interno al film, quello dei personaggi, invece, essi sono interamente concentrati sulla cacciata razziale e per ciò non si accorgono nemmeno di quello che sta succedendo a pochi metri da loro.
A ciò va aggiunto che, a una certa, per convincere la famiglia di colore ad andarsene, l’amministrazione cittadina fa costruire una sorta di muro intorno alla proprietà della suddetta famiglia. Ora, loro sono neri, mentre quelli a cui sto alludendo sono messicani, ma credo che in fondo in fondo a Clooney non vada troppo a genio Mr. President Donald Trump. Sono in arrivo guai, George!
George Clooney

Ripeto che questo è il primo film di Clooney regista che io abbia avuto occasione di vedere. Il nostro fascinoso George, però, mi è parso decisamente lucido e consapevole sia di ciò che stava facendo sia dei suoi mezzi. Insomma, immagino che Clooney sappia di non poter (o voler) essere un regista interamente autoriale, ma questo non è un problema fin quando fa dei film del genere. È altrettanto vero che dopo le scene iniziali magari ci si aspettasse un altro tipo di regia, forse più virtuosa, ma in realtà io credo sia stato meglio così. Perché questo non è un film equilibrato, e di conseguenza non vedo motivo per cui dovrebbe esserlo la regia. Senz’altro il Nespresso-man ha saputo girare in modo pulito e scorrevole: il film non annoia mai, non è lento ed è godibile da un’ampia fascia di pubblico, con pretese anche agli antipodi. E credo che Clooney non puntasse a un esito diverso. Poi quando mi fai le inquadrature di transizione in ombra… uuuuuuhm, cazzo sì! Blasfemia? Cosa? Dove?

Ora, ovviamente Suburbicon non è un film perfetto, ha i suoi difetti, vedi l’eccessiva lunghezza di alcune sequenze o il controllo retorico non efficacissimo di alcune scene. Tuttavia questo è un film che fa bene al cinema e che fa bene anche a George Clooney. Perché in un mondo dominato dall’odio e dove spropositano le risate inutili, un po’ di umorismo cupo non fa di certo male. George smetti di fare l’attore e diventa un regista a tempo pieno, te lo chiedo per favore, tanto le foto che mostrano la tua figaggine te le faranno lo stesso, fidati.