
Suburra: uno spietato viaggio nel “mondo di mezzo”
“È la teoria del mondo di mezzo, compà. Ci stanno i vivi sopra e li morti sotto e noi stamo ner mezzo… Ce sta un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano. Allora nel mezzo anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno. E tutto si mischia.”
Queste parole non provengono da Suburra, ma dalla Suburra, quella vera. Chi parla è Massimo Carminati, ex membro della Banda della Magliana, arrestato il 2 dicembre 2014 nell’ambito della maxi operazione “Mondo di mezzo“, che proprio dalle sue intercettazioni ha preso il nome. L’indagine ha rivelato al mondo quello che a Roma sapevano pure i sampietrini: l’esistenza nella Capitale di una stabile rete mafiosa, soprannominata Mafia Capitale, in grado di infiltrarsi ad ogni livello della vita politica e imprenditoriale della città, sempre a stretto contatto con la classe dirigente. E di questo “mondo di mezzo” Carminati era il re (della serie “innocente fino a prova contraria sto gran cazzo”).
“Sì, va bene, ma ora ci devi attaccare il pippone politico su un sito di cinema? Ma che è?”. Eh ragazzi lo so, il fatto è che ci sono dei film che si possono guardare a cazzo di cane ed apprezzare ugualmente, altri che richiedono invece delle premesse per essere compresi appieno. E Suburra di Stefano Sollima è uno di questi. Guardarlo non basta, bisogna capire tutto quello che c’è intorno.
E allora partiamo dall’inizio, cioè dal libro. Suburra-libro viene scritto a due mani dal magistrato Giancarlo De Cataldo (già autore di Romanzo Criminale) e dal giornalista investigativo Carlo Bonini. Il titolo viene dall’omonimo quartiere della capitale situato fra i colli del Quirinale e del Viminale, ai piedi del potere. Nell’antica Roma, il quartiere era essenzialmente una fogna malfamata abitata dalla peggio plebaglia, ed era pertanto il luogo ideale nel quale spesso gli uomini di potere si incontravano con il mondo criminale, lontani da occhi indiscreti. Di conseguenza, il titolo scelto dai due scrittori vuol dire essenzialmente questo: “saranno passati anche duemila anni, ma a Roma non è mai cambiato un cazzo”.
Il giorno in cui scoppia il caso Mafia Capitale, Stefano Sollima ha già praticamente finito di girare Suburra, trasposizione dell’omonimo libro. Di conseguenza, non è vero niente che il film ha preso spunto dall’inchiesta. Semplicemente, il libro ne anticipava molti aspetti, che in realtà nell’ambiente sapevano già cani e porci.
Su Sollima non smetterò mai di tessere le lodi. A lui si deve la maggior parte del merito della resurrezione del cinema italiano di genere, grazie ad opere come le serie di Romanzo Criminale e Gomorra, che hanno fatto il giro del mondo. E io lo amo. Amo il suo talento, il suo tocco e soprattutto il suo impegno, o meglio la sua missione. Perché Sollima si è preso finalmente la briga di parlare dell’Italia scomoda, di quella che qualcuno vorrebbe nascondere sotto il tappeto. I suoi lavori rappresentano ossigeno puro, in un Paese dove respiriamo merda dalla mattina alla sera.
Bene, direi che ho premesso quasi tutto ciò che c’era da premettere. Ora potete pure esultare. Finito? Perfetto, allora parliamo del film.
Come il libro, il film vuole essere un affresco dei poteri e delle dinamiche che comandano Roma dal suo sottosuolo. La vicenda è ambientata nella settimana fra il 5 e il 12 novembre 2011, data indicata come “l’apocalisse”. Cioè quando Berlusconi ha finalmente deciso di togliersi dai coglioni e dare le dimissioni. In questo periodo di tempo, in una Roma funestata da una pioggia torrenziale e implacabile, le vite di un nutrito cast di personaggi verranno stravolte dall’unica vera protagonista della storia: l’oscurità, quella più buia e profonda.
In Suburra funziona tutto: la regia di Sollima, sempre precisa e tagliente; le musiche da togliere il fiato degli M83, che da sole valgono la visione del film; la sceneggiatura, in grado di inanellare in maniera perfettamente coerente e razionale una serie di eventi all’apparenza distanti, in modo da creare un quadro finale solido e potente; gli attori. E su quest’ultimo aspetto non ci si può non soffermare.
Il casting di questo film è semplicemente perfetto. Pierfrancesco Favino veste i panni del politico corrotto Malgradi, confermandosi ancora una volta fra i tre migliori attori italiani in circolazione. Elio Germano, nei panni del party planner Sebastiano che si ritroverà incolpevolmente trascinato nell’abisso della malavita, offre una prova di un’intensità che oserei definire illegale.
Assolutamente impeccabile anche la prova di Claudio Amendola. Il suo Samurai, ricalcato sulla figura di Carminati (che si è pure lamentato perché voleva un attore di livello più alto per impersonarlo. Rendiamoci conto), è perfetto. Amendola lavora tutto in sottrazione, togliendo ogni traccia di sentimento e di emozione al volto di un’uomo che è sopravvissuto a decenni di strada, arrivando infine a mettersi l’intera Capitale in tasca. Fermo, impassibile, senza il bisogno di dimostrare nulla, Il Samurai è freddo e autorevole semplicemente perché è.
Tutti a Roma si inchinano davanti alla sua autorità. Pure la Chiesa, alla quale Sollima dedica brevi ma importantissime sequenze (su tutte quella, all’apparenza fuoritema, dedicata al vecchio papa Ratzinger). Il Samurai non deve rendere conto a nessuno, se non alle famiglie del Sud. Sono infatti le mafie meridionali a dirigere il gioco, anche se nella vicenda non si espongono mai direttamente, in una perfetta dimostrazione di come il loro potere si dirami sulla Penisola, silenzioso e inarrestabile.
Un capitolo a parte merita però la sorprendente prova di Alessandro Borghi nei panni di Numero 8, il boss di Ostia, la cui zona è al centro di un giro speculativo di milioni di euro per trasformare il litorale in una nuova Las Vegas. Già ammirato in Non essere cattivo, Borghi ci regala un giovane malavitoso feroce e spietato.
Un’interpretazione vera, rabbiosa e magnetica che rende il suo personaggio indimenticabile, e questo anche grazie alla bravissima e bellissima Greta Scarano, che interpreta il ruolo di Viola, la ragazza di Numero 8. Nonostante la loro vita lasci poco spazio al romanticismo, i due sono legati indissolubilmente l’uno all’altro, e ciò suscita per loro un’empatia sincera e profonda. Sollima riesce così nell’impresa di inserire una grande storia d’amore anche all’interno di un’opera così cupa, il tutto a beneficio del coinvolgimento emotivo dello spettatore. Chapeau.
Suburra è uno di quei film che ti prendono allo stomaco e aumentano la stretta ad ogni minuto che passa. Un’opera spietata e senza spazio per la speranza, che ci restituisce l’immagine di un Paese marcio dentro, le cui istituzioni sembrano ormai irrimediabilmente compromesse, abitate da una classe politica che ha come unico interesse quello di ingraziarsi i capi di partito per sopravvivere alle prossime tornate elettorali (l’ultima scena dedicata al personaggio di Malgradi vale più di molti trattati di politica nostrana). In tutto ciò i cittadini perbene è come se non esistessero, inermi dinanzi al declino inesorabile della società, mentre camminano per strada a testa bassa, sperando di non incrociare mai gli sguardi sbagliati.
Se La grande bellezza ci ha mostrato il nulla assoluto che domina i salotti bene della Capitale, Suburra ci trascina nel suo abisso, nei meandri di una città le cui fogne sono talmente piene da straripare, allagandola di un acqua sporca, che forse converrebbe sperare fosse quella del Giudizio Universale.
Invece ogni mattina il sole sorge, ed è sempre la stessa storia. Tutti sanno, tutti fanno finta di niente. Gli scandali arrivano e passano come il brutto tempo, e poi torna tutto come prima. Ecco perché opere come quella di Sollima sono così importanti. L‘ignoranza è potere nelle mani di chi vuole che certe cose rimangano nel buio della Suburra.
L’unico modo per portare ad un cambiamento è illuminare l’oscurità. E a questo servono opere come Suburra, perché sono luce pura. Perché il cinema italiano può essere grande, e il nostro Paese ha bisogno di un grande cinema che aiuti a svelarne gli scheletri, che purtroppo in Italia nessuno si prende nemmeno la briga di nascondere nell’armadio.
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