
Tarzan, “sono stata salvata da un selvaggio volante in perizoma…”
Tarzan. Oggi voglio giocare sul sicuro e per questo articolo faccio leva sul sentimentalismo dei miei coetanei che hanno avuto la fortuna di “nascere, crescere e correre” nel pieno di quello che comunemente chiamiamo Rinascimento Disney, glorioso periodo che si chiude proprio con questo film del 1999.
Una coppia di lord inglesi con neonato al seguito approda su una spiaggia della giungla africana, dopo essere scampata a un incendio scoppiato sulla nave su cui viaggiavano.
Stabilitasi in una capanna su un albero, la famigliola si adatta alla vita selvaggia: una notte però viene attaccata dal leopardo Sabor, che uccide i genitori del bimbo.
Qualche tempo dopo Kala, giovane gorilla che ha appena perduto il suo cucciolo, viene attirata da un pianto proveniente dalla casa sull’albero: dopo averlo salvato da un altro assalto di Sabor, torna dal branco con il trovatello, che decide di tenere con sé, nonostante il parere contrario del compagno e capo della colonia, Kerchak.
Il bambino, cui viene imposto il nome Tarzan, cresce agile e libero, e con molti sforzi riesce a farsi accettare, pure nella sua diversità, dal branco: solo il padre adottivo continua a guardarlo con sospetto.
La vita nella giungla trascorre tranquilla tra una pericolosa avventura e l’altra, fino a quando Tarzan, ormai adulto, non viene a contatto con degli esseri che gli somigliano straordinariamente: si tratta di un gruppo di ricercatori composto dal professor Porter, sua figlia Jane e la loro guida, il cacciatore Clayton.
Il giovane instaura un forte legame con i suoi simili, i primi che abbia mai incontrato: grazie a loro, che sono giunti in Africa per studiare il comportamento dei gorilla, impara a parlare, a leggere, scrivere e molto altro sul “mondo civilizzato”; Kerchak però continua a diffidare degli umani e non vuole che si avvicinino alla colonia.
Tarzan si trova così a dover scegliere tra il desiderio di appartenere al consorzio umano e la sua famiglia, mentre una grave minaccia si profila all’orizzonte.
Nato dalla penna di Edgar Rice Burroghs, Tarzan è un beniamino del cinema, dagli anni Venti in poi (ricordiamo l’infinita serie di film in bianco e nero con Johnny Weissmuller), perché è una storia con gli ingredienti giusti per appassionare il pubblico: un eroe ante-litteram che salta da una liana all’altra, posti esotici, una storia d’amore.
L’incontro tra due mondi diversi, quelli di Tarzan e Kala prima e di Jane e Tarzan dopo, non può che colpire profondamente lo spettatore, l’adulto come il bambino: anzi, a solleticare di più le nostre emozioni è l’amore incondizionato di Kala, la scimmia, per il trovatello che quello, tutto sommato prevedibile, tra i due giovani.
You’ll Be in My Heart, brano di Phil Collins vincitore dell’Oscar alla Migliore Canzone, funge da perfetta cornice per il significativo momento in cui Kala, fregandosene del marito e dei suoi rimbrotti, si tiene il marmocchio, per il quale sarà un punto di riferimento irrinunciabile, anche dopo aver preso coscienza di non poter essere realmente nato da lei.
E giù lacrime, ovviamente, più ora che a nove anni, come mi succede con quasi tutti i cartoni Disney, mannaggia a me.
Tutto sommato, Tarzan è la semplice storia di un diverso che accetta se stesso dopo un lungo iter formativo: prima diventa “la miglior scimmia che c’è”, difensore della sua famiglia di primati, topos importantissimo ai fini della trama, poi, incontrata la bella Jane e appreso di appartenere ad un’altra specie, si emancipa, imparando a comportarsi come un uomo.
Il risultato che ne viene fuori è un uomo che conserva in sé i lati positivi di entrambi i mondi, cosa che lo stesso Burroghs sottolineava già nel 1912, pur adottando termini e modi di pensare molto più aspri di quelli a cui siamo abituati.
La Disney ha ovviamente ammorbidito certi stereotipi che l’autore, figlio di un’altra epoca, non esita ad utilizzare sia per descrivere umani e animali.
Il punto forte di Tarzan, oltre all’animazione, curata da Glen Keane (La sirenetta, La bella e la bestia, Aladdin) che per ricreare i sinuosi movimenti del protagonista si è ispirato al figlio skater, è la colonna sonora, composta dal leggendario Phil Collins, che per l’occasione canta in inglese, italiano, francese, tedesco e spagnolo.
Da qui la mia difficoltà atavica nel comprendere i testi, in quanto il vecchio Phil ovviamente non vanta un italiano fluente: le canzoni sono però così belle, in qualsiasi lingua, da perdonargli tutto.
Ah mamma Disney, quanti bei regali ci hai fatto (e quante inutili speranze hai alimentato, ahimè…).
Ma davvero qualcuno di voi non ha visto Tarzan? In ginocchio sui ceci e attaccatevi allo schermo, ORA.