
Terminal: Alice nel paese delle (non) meraviglie moderne
POTREBBERO ESSERCI RIFERIMENTI SPOILERESTICI ESPLICITI
“Hai mai visto Terminal?”
“The Terminal? Ah sì, quello con Tom Hanks, un sacco bello”.
NO. Ho per caso messo l’articolo davanti a Terminal? Non mi pare. (Respiro profondo). Questa è la risposta di OGNI persona alla mia domanda su questo film. E ciò testimonia solamente quanto Terminal non se lo sia mai cagato nessuno. Big big mistake, perché è veramente ATOMICO.

Come avrete già notato, in questo film regna sovrana la stupenderrima Margot Robbie, impeccabile in questo ruolo. Terminal mi ha fatto capire davvero quanto fosse talentuosa l’attrice, in una moderna e impeccabile rielaborazione della storia di Alice nel paese delle meraviglie.
Cominciamo con l’apertura (WOW) di Terminal.
C’è un posto che non ha eguali sulla Terra. Un luogo pieno di meraviglia, mistero e pericolo. Si dice, che per sopravvivere qui bisogna essere matti come un Cappellaio. E per fortuna, io lo sono.
Margot, sappi che mi hai fatta innamorare già solo con questa frase e con l’inquadratura dei tuoi tacchi a spillo. Sei fantastica e per questo film ti avrei pluripremiata. Ok basta. Penso si sia già capito abbastanza che adoro Terminal.
Quindi già questo incipit ci catapulta dentro il Paese delle Meraviglie. Ma siamo proprio sicuri che siano meraviglie? Dopo tutto siamo in una stazione deserta di notte. Il luogo perfetto per Alice, no?
Sentiamo qualcuno fischiettare. Un fischio che funge da leit motiv per tutto il film, saltando fuori di tanto in tanto con il sorvegliante notturno che vaga per la stazione. Questa, è un luogo indefinito, un non-luogo, un posto dove vagano anime perdute. Criminali, delinquenti, uomini corrotti.
E tutto questo marciume è costantemente illuminato dalle luci al neon, coprotagoniste indiscusse del film, accentuando le note misteriose di Terminal. E sotto queste luci troviamo Annie (Margot Robbie), cameriera e spogliarellista.
È bionda, proprio come Alice. Indossa un abitino bianco mentre lavora, proprio come la Regina Bianca. Prepara il tè come il Cappellaio, il suo sorriso si contrae in smorfie da Stregatto. Quando lavora come spogliarellista c’è una stanza chiamata “La tana del coniglio“. Quando esce dal Cafè indossa un cappotto rosso come la Regina di cuori. Insomma, tutti i personaggi di Carroll sembrano fondersi in lei.

La incontriamo per la prima volta in un Cafè sperduto in mezzo alla stazione, in cui arriva Bill, un insegnante di grammatica che sta per morire a causa di un tumore. Stava aspettando un treno, ma come gli dice il sorvegliante, “è un treno che non arriverà mai“. E probabilmente questo treno è la redenzione che Bill incessantemente cerca.
Così spende qualche ora del suo tempo a parlare con Annie di suicidio. “Ci sono molti più modi per togliersi la vita che per viverla“, dice lei, come un bellissimo angelo della morte che sorseggia latte tirando fuori diverse possibilità su come ammazzarsi (che contrasto).

Successivamente, incontriamo Vincent e Alfred, due criminali un po’ eccentrici che finiscono (casualmente) anche loro a sorseggiare tè nel Cafè di Annie. Magari è il loro non-compleanno. E infatti, i riferimenti al libro di Carroll in Terminal sono appena cominciati.
Alfred, inoltre, fa un ironico commento sui film gangster, e loro stessi sono una stereotipizzazione dei criminali che siamo abituati a vedere sullo schermo. “Perché nei film uno si aggira per la casa come un coglione rischiando di farsi sparare? Se assoldassero un vero serial killer sarebbe tutto più realistico”.
E Vincent gli dice che è tutta finzione, è tutto inventato. Ma anche quello che fanno loro, in realtà, è finzione, anche se non lo sanno. Sono caduti perfettamente nella tana del coniglio, diventando delle pedine. Capite? Non è più Alice che accidentalmente ci finisce dentro. Lei è alla fine che li aspetta, in tacchi a spillo e con una pistola infilata nella giarrettiera.
Le pareti del Cafè ci mostrano due luci al neon con scritto “Drinks” e “Eats” (pozione che restringe e torta che ingrandisce?) e i due aprono una valigetta nera che contiene un messaggio: “Follow me“. Esattamente come i messaggi che trova Alice.
E indovinate un po’ dove vanno a finire? In uno strip club tutto a tema Bianconiglio. Sì, diciamo che Alice potrebbe essersi data alla lap dance dopo aver mangiato tutti quei “dolcetti”. Perché nella modernità non ci sono meraviglie. C’è solo violenza.
I due compari arrivano di fronte a una serratura. Ma non devono aprirla come Alice. No, perché la serratura è la porta stessa. All’ingresso una ragazza chiamata Conejo dice ai due di parlare con una certa Bunny che scopriamo essere Annie (quindi lei è anche il Bianconiglio), in una versione che fa molto Suicide Squad.
Annie gli dice di seguirli nella tana del coniglio (chissà come mai) e gli consegna un’altra valigetta. Tutto questo intrigo è opera di Mr. Franklin, un pezzo grosso che presumibilmente manovra i fili di tutti i criminali del luogo, e non solo. Infatti, ogni tanto vediamo qualcuno che, tramite delle telecamere poste ovunque, osserva tutto quello che sta succedendo. Tipo The Truman Show, tanto per intenderci.
E poco a poco, tutti questi personaggi vengono trascinati in una voragine sempre più profonda. Perché loro non sanno di star seguendo il Bianconiglio, e che questo li sta portando giù giù nella sua tana. Non sanno di trovarsi tutti nel Paese della violenza, della corruzione, della malvagità.
Si trovano in un mondo fittizio, in una stazione da cui non usciranno più. È un purgatorio, dove tutti questi personaggi vagano alla ricerca di qualcosa che non troveranno. In attesa di un treno che non arriverà. Però qualcosa arriva. E questo qualcosa, beh, è la morte.
Qui non ci sono regole. Non ci sono organi di giustizia, né religione. Non c’è nessun Dio. Qui ci si fa giustizia da soli. E così fa Annie, che porta Bill sull’orlo di un enorme buco, pensando che abbia finalmente abbracciato l’idea del suicidio. Ed è lì, a un passo dalla morte, che il professore si ricorda di lei. Perché cercava redenzione? Perché “le mani sporche di gesso lasciavano segni indelebili sulle mutandine”.
La mamma di Annie è morta in un incendio quando lei era piccola, e così è stata portata in un orfanotrofio dove la notte succedevano cose orribili. E ora per Bill non c’è redenzione, ma solo l’abisso, dove ben presto finiscono anche Vincent e Alfred, perché in realtà è Annie che manovra i fili di tutti questi personaggi-pupazzo.
Non vi dirò più nulla sulla trama, perché il finale è tutto da gustare e da scoprire. C’è un bel colpo di scena che, tra l’altro, mette ancora più in risalto la storia di Carroll, fino a leggerne alcuni passi e a mostrare il libro fisicamente.
Posso solo dirvi che Terminal, tra luci al neon, pastiche, citazioni, mistero e doppi, vi farà venir voglia di saltare sul primo treno diretto a questa stazione, sempre che esista. Attenti però a non far incazzare la Robbie. Che qui altro che Harley Quinn.