
The Bad Batch – Anche gli esclusi cercano un sogno
In The Bad Batch (2016) gli ingredienti per catturare l’attenzione ci sono tutti: società distopica, cassette tapes, cannibalismo, biondina in cerca di vendetta, e Jason Momoa (senza ombretto). Ma soprattutto c’è un deserto, enorme e forse infinito, dove si ammucchiano rottami di nostalgia, e in cui si mischiano atmosfere anni ’80/’90 con quelle anni ’60/’70, ovvero il grottesco con la malinconia.
Il film diretto da Ana Lily Amirpour e vincitore del Premio Speciale della Giuria a Venezia si inserisce in un genere che in molti sono tornati ad apprezzare sulla scia dell’ultimo successo di Mad Max: Fury Road (2015), ma che in realtà porta ancora in grembo i discendenti del primo Miller di Interceptor (1979), del western di Sergio Leone e di tutto un filone anni ’70 che ha consegnato al deserto un’estetica tutta sua.
LA TRAMA
Il Bad Batch è una discarica umana. Un deserto in cui vagano lotti difettosi, emarginati dalla società statunitense, alla ricerca di una nuova destinazione. Troviamo Arlen (Suki Waterhouse), numero di lotto 5040, che provvista solo di una tanica d’acqua cerca Comfort, o qualsiasi confortevole posto in cui trovare un sogno.
Ma è Arlen che viene trovata, mentre ancora corre su tutte e due le sue gambe, da una sessantenne agguerrita e palestrata, tutta proteine e blue jeans che le salta addosso come un wrestler fuori dal ring, o come una leonessa dritta al collo della gazzella in fuga (la scena in effetti ricorda un po’ Geo & Geo, il che è pure appropriato perché quella è una caccia a tutti gli effetti). Arlen viene catturata da una comunità che vive nelle carcasse di mezzi pesanti, negli scheletri di vecchi aerei, in container riassemblati, che fa pesistica notte e dì e si ciba di carne umana. Tra questi, un oliato e tatuato Jason Mamoa, ovvero Miami Man, che quando molla i pesi indossa persino deliziosi occhiali dorati per ritrarre in tutte le salse la sua adorata bambina.
Da qualche altra parte, invece, a Comfort, la gente sopravvive nella promessa di un sogno che viene distribuito di notte, sotto la lingua. Il guru, un certo Rockwell interpretato da un Keanu Reeves baffuto alla Pablo Escobar, fa il suo pippone di benvenuto ai nuovi arrivati e promette loro il benessere come certi narcotrafficanti promettevano la salvezza per i poveri.
Arlen, senza più un braccio e una gamba, abbastanza disillusa e incazzata nera, diciamo anche furiosa per citare Miller, cercherà (almeno inizialmente) vendetta contro quelli che crede incivili e feroci assassini.
QUESTIONE DI ESCLUSIONE (L’apolitica dell’emarginazione)
Un Bad Batch è un escluso, un rigettato, un non degno di vivere nella comunità ufficiale. Un espulso. Il che fa pensare ad una politica molto attuale negli Stati Uniti, a un certo muro, uno a caso. A un presidente che c’ha un nome quasi uguale alla parola vagabondo.
Non si vede il mondo dall’altra parte del Bad Batch. Non sappiamo che tipo di civiltà c’è, in che anni siamo, cosa è successo prima, quanto è figo il mondo dei non esclusi, o quanto è triste. Vediamo solo il deserto, e quello che succede tra i rottami, tra gli sconfinati. Un po’ come per tutti noi: che diavolo ne sappiamo del paradiso o dell’inferno? Siamo già stati esclusi dall’Eden, siamo tutti un po’ dei poveracci e siamo pure parecchio difettosi.
Anche The Bad Batch sembra giocare su una sorta di apoliticità di genere. I suoi difetti (o i suoi punti di forza, per quanto mi riguarda), come la non ostentata azione, i pochi dialoghi, e i grandi silenzi, la dilatazione del tempo che sfiora momenti di noia, almeno per chi cerca in The Bad Batch un film in cui dominano inseguimenti, esplosioni, urla e frasi fatte, lo rendono un prodotto non del tutto definito, non del tutto inquadrato, che non appartiene ad un confine preciso, come i suoi personaggi non appartengono alla terra da cui sono emarginati, o come Ana Lily Amirpour, nata in Iran e cresciuta in America, non appartiene neanche lei del tutto al suo paese d’origine.
COSA RESTERÀ DI QUEGLI ANNI ’80 (e ’90)?
Dalle cassettine ai walkman, alle magliette con Vamos a la playa (1983), alla scelta di inserire All that she wants (1993) mentre segano arti umani, il cui videoclip ricorda anche molto alcune scene del film (il truccarsi allo specchio, i continui dettagli sui braccialetti, Arlen che si prova il braccio ritagliato da una rivista).
E non solo: i riferimenti a Pablo Escobar, il grottesco, il disordine dell’abbondanza. Un disordine destinato a regnare solo su un cumulo di rifiuti umani, al vagabondare di idee in un deserto infinito.
L’ESTETICA DEL DESERTO
Silenzi, terra, vento, ricerca dell’altro. Il senso dell’infinito o di una ricerca senza fine. Il disincanto, il nichilismo. Il deserto è il protagonista assoluto di questo film. Un deserto che rievoca gli universi narrativi di Sergio Leone, dove lo spazio è sacro, è terra di nessuno e sfuma con la polvere il carisma degli eroi. Sean in Giù la testa, con la sua motocicletta ricorda Miami Man sulla sua, ma ricorda anche il vagabondo Peter, l’irriconoscibile Jim Carrey, che fa pensare anche al ragazzo di A Boy and His Dog e al capitano Gyro di Interceptor.
In The Bad Batch il deserto è sia luogo di isolamento ma anche di tentazioni (e di redenzione?). Facile ricordare persino Gesù tentato dal demonio che promette in cambio dell’adorazione il comfort di una vita all’insegna del sogno. Ma Cristo e The Bad Batch rispondono un po’ alla stessa maniera: “non solo di pane vivrà l’uomo”, e infatti, anche di carne umana.
Il deserto è estetizzato anche nel suono, perché a proposito dei lunghi silenzi: a che serve un dialogo quando basta un lenzuolo (bellissima la scena della tempesta di sabbia).
Uno spazio in cui inserire un viaggio più orientato all’orizzontalità che alla verticalità, nessun personaggio forse cresce o si eleva, non è quello lo scopo. Va avanti, scopre l’ignoto: dalla vastità delle stelle, all’allucinazione, al senso di infinito di un deserto che inghiotte e sputa fuori il lato animalesco dell’uomo de-civilizzato.
I campi lunghi, così come le lunghe sequenze (per forza è un difetto?) ci restituiscono almeno due cose: una fotografia potente ed elegantemente cazzuta e l’estenuante silenzio (dite noia?) della solitudine umana. Per questo i tempi sono coerenti e giusti, sia per estetica che per narrazione. E anche se è vero che la scena di Arlen che vede le stelle sotto l’effetto di un allucinogeno dura quasi dieci minuti, la verità è che dura quanto deve durare, in questa storia. Anche perché nel tagliare la Amirpour ha scelto altro.
AMPUTARE
L’amputazione, il togliere, diventa il liberarsi di alcune parti di sé, quelle anche legate alla socialità. Perché la sopravvivenza è molto più individuale che collettiva. E ognuno ha delle ragioni tutte sue. Miami Man, abile macellaio che tronca le braccia della gente con la stessa nonchalance di mia nonna quando affettava cosciotti di pollo, fa qualcosa di mostruoso ma per una ragione vera, reale, concreta: l’amore per sua figlia. Arlen invece rincorre un sogno che non esiste, in nome di qualcosa di più astratto, interiore, personale. Non è ancora in grado di capire i perché di Miami Man, che sarà pure brutale, ma scambia le informazioni coi ritratti invece che coi cazzotti e c’ha i fenicotteri tatuati sulla schiena, e per chi conosce le abitudini di questi poetici animali, qualcosa vorrà dire.
Tu non vedi le cose come stanno, le vedi come fanno comodo a te.
E infatti le vede un po’ come Alice nel paese delle meraviglie, che esce dal buco (in questo caso di una recinzione) e insegue visioni allucinate e verità tutte sue. A Comfort non si usano mannaie ma si vende qualcosa con un altro nome: sogno, comfort, sollievo, consolazione. Una sorta di benessere plebeo, lo stesso che negli anni ’80/’90 si cercava per le strade e si ammazzava per possedere. Una promessa che divora forse peggio dei denti di chi mangia carne umana. Vendere promesse è travestire un mostro che ti cannibalizza da dentro. Perché di carne umana è fatto anche quel cuore che cerca un sogno, e i brandelli di sogni sanguinano molto di più.