
The Farewell – La bugia buona e bella di Lulu Wang
Almeno una volta ogni anno arriva quel film con il quale trovi immediatamente una connessione emotiva, intima e personale così da sconvolgerti l’intera giornata; quel film che vorresti mostrare a chiunque ti è intorno o continuamente condividere dei post a riguardo perché ognuno deve sapere della sua esistenza. Mi è quindi difficile scrivere di The Farewell rimanendo impersonale; mi è ancora più difficile però non pensare ai ricordi che ha suscitato la sua visione, di come immagini della mia vita che pensavo di aver dimenticato sono in realtà ancora lì, per essere, appunto, ricordate.
The Farewell diretto da Lulu Wang è infatti un film che attraverso il ricordo della stessa regista trova l’incipit per una storia “basata su una bugia reale”. Una bugia considerata “buona” quella della famiglia di Billi (Awkwafina) che opta, come molte altre famiglie cinesi, di non comunicare al malato la certezza della sua morte. Infatti dopo aver scoperto del tumore terminale della nonna Nai Nai, rimasta in Cina dopo i trasferimenti dei figli, rimane l’unica familiare a non saperne nulla. C’è chi torna dal Giappone, chi invece come la famiglia di Billi da New York, tutti riuniti per celebrare la perdita imminente attraverso un elogio funebre mascherato da finto matrimonio.
Il teatrino messo in scena dai familiari diventa anche il pretesto per un confronto culturale e familiare che si riflette attraverso il cibo (tantissimo), l’architettura, gli oggetti e i gesti. Billi trasferitasi da bambina a New York, ricorda poco del suo passato in Cina, è ormai immersa nella cultura occidentale e nella maggior parte del tempo usa il telefono per comunicare. Oggetto che sin dall’inizio crea un confronto culturale e generazionale: quello della nonna Nai Nai, ancora legato a un cavo telefonico mentre quello della nipote ne è privo.
L’arrivo di Billi in Cina, ricorda l’inizio di Lost in Translation dove Billy Murray osserva dalla macchina gli enormi palazzi che compongono la città. In The Farewell non c’è spaesamento ma più una sensazione di appartenenza a quei luoghi e un bisogno di riscoperta da parte della protagonista. Il quartiere della nonna ormai devastato dalle nuove costruzioni è irriconoscibile e quindi abbandonato al ricordo. È rimasta solo un’enorme costruzione a forma di arcobaleno che ricorda la scenografia, usata dalla famiglia per un ritratto fotografico. Sono molte le situazioni in cui la fotografia e i set fotografici fanno da sfondo a intere sequenze, ricalcando e rafforzando quel concetto di immagine come ricordo, come momento del tempo impresso e irremovibile. Come le fotografie appese al muro o quelle sulle lapidi che generano a loro volta un ricordo che si intreccia con il mondo reale.
Surreale e toccante la scena in cui dopo aver ricordato il nonno attraverso la sua fotografia e un pranzo al cimitero, quest’ultimo appare alla finestra di Billi mentre fuma una sigaretta, per poi svanire come un ricordo. Lulu Wang è consapevole della potenza che una singola immagine può scaturire ed è così che articola visivamente il suo film. Perché sì, un’immagine per quanto universale ha la capacità di essere al tempo stesso intima e personale, di rievocare ricordi che pensavamo aver rimosso o ai quali non davamo più importanza. Non si tratta tanto di immedesimazione ma più di avvicinamento a quelle situazioni a cui tutti, più o meno, siamo stati partecipi: i pranzi in famiglia, i parenti che a causa della lontananza tendiamo a dimenticare, l’appartenere ad una nuova società, la morte improvvisa e la nostra assenza.
Perché è proprio con l’assenza che Billi dovrà combattere: quella precedente alla morte del nonno, che non ha potuto salutare e quella futura, dell’energica e combattiva Nai Nai. Nai Nai che mostra un’energia invidiabile e come ogni nonna che sia, intenta nel far mangiare e sposare la nipote a tutti i costi. Nai Nai che è anche custode di valori passati e legati a una cultura che Billi ha ormai perso, senza però creare un contrasto ma più un riallacciamento verso la nipote lontana. Tant’è che con il progredire del film Billi accetterà la bugia perché più vicina al pensiero di molte famiglie cinesi; brucia un telefono finto per un piccolo falò commemorativo perché non le serve più per comunicare con la nonna, è lì, è presente e decide di non volersene andare.
“La vita appartiene a un tutto. Famiglia e società”, Lulu Wang ha vissuto questo concetto sulla sua pelle, facendo di questo “tutto” e delle sue differenze il pretesto di ricerca per uno stile che intreccia occidente e oriente con una sensibilità e uno spirito devastanti. Le continue figure riprese di spalle, le scenografie colorate e la disposizione dei corpi rievocano il cinema di Edward Yang che Lulu Wang amalgama perfettamente con uno stile combaciante il mondo e il modo americano di vivere e dirigere.
Incredibile la fluidità con cui The Farewell prosegue, disseminando sequenze indimenticabili. Come quella finale sulle note di una cover di “Come Healing” di Leonard Cohen, dove Billi ripercorre in macchina quei luoghi che l’hanno portata a casa della nonna. Ricordo ancora quando ogni tanto facevo visita a mia nonna che abitava a una distanza incolmabile per un ragazzo senza macchina e per nulla indipendente. Ricordo quando la salutavamo tutti quanti dalla macchina vedendola sparire dal nostro campo visivo, mentre partivamo per tornare a casa. L’unica cosa che pensavo di aver dimenticato è l’ultimo giorno passato insieme prima di lasciarci.
The Farewell ha fatto riemergere ricordi sommersi dall’assenza che continuo a provare per non essere stato più presente o essere stato troppo distante. Trovare qualcosa di così personale e allo stesso tempo universale è un’esperienza unica e spaventosa. Per questo The Farewell è un’opera incredibile sul tempo che passa e la paura dinanzi alla morte che ci riunisce tutti in egual modo, intorno allo stesso tavolo, in quanto esseri umani.