
The Invitation: quando sarebbe meglio (non) declinare l’invito
The Invitation: un thriller perfetto, avvincente, con punte di horror e una scrittura ottima… ah, ovviamente non se l’è cagato nessuno.
A metà tra Carnage e Perfetti sconosciuti
The Invitation è uno di quei film che consentirebbero al recensore di giocare all’infinito al gioco dei paragoni, dei paralleli e delle citazioni. Ve ne dico due e poi passiamo oltre, perché c’è roba molto più sugosa: i punti di riferimento per lo spettatore sono i recenti Carnage di Roman Polanski e Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese. In realtà c’è molto di più, perché quello di Karyn Kusama è un film che – sembrerà banale, ma è così – vive di cinema, per la precisione quel tipo di cinema che arriva direttamente dai drammi da camera, uno su tutti Nodo alla gola di Hitchcock. Non si stanno facendo paragoni, ovviamente, ma il tipo di film è quello, la costruzione è quella.
The Invitation ci racconta la storia di Will, ovvero Logan Marshall-Green (Tray Atwood, per chi è pratico di O.C.), e la sua nuova fidanzata che ricevono un invito a cena dalla ex moglie di lui. Tra gli ex coniugi convive lo scomodo lutto di un figlio morto in circostanze che non vengono del tutto chiarite, ma il cui ricordo pesa ancora a destabilizzare la psiche dei due. Alla cena partecipano anche il nuovo compagno della donna, interpretato da Michiel Huisman (volto noto per tutti i fan del Trono di Spade), insieme alla vecchia congrega di amici della coppia.
Tutto sembra procedere liscio, fino a quando non si viene a scoprire che il nuovo compagno della padrona di casa l’ha iniziata agli insegnamenti di un santone del Sudamerica, integrandola all’interno di una setta che si propone di regalare la pace agli spiriti tormentati tramite il perdono, l’autoanalisi e una marea di pipponi sulla morte che finiscono per diventare alquanto sinistri.
Un film difficile da raccontare
Non si può andare oltre a questo nel raccontare The Invitation, perché aggiungere dettagli significherebbe rovinare un film che ha la sua forza nella gestione della tensione. La Kusama crea ansia e aspettativa nello spettatore grazie alle suggestioni date dai movimenti della macchina da presa, dall’inserimento di una colonna sonora sensazionale e dalla recitazione di attori poco noti, ma di sicura abilità.
La sceneggiatura è finissima, riesce a tratteggiare le personalità dei vari personaggi (che non sono pochi) e nel giro di un’ora e mezza raccontare una storia avvincente, elegante, che travalica il classico format “tre attori in una stanza”. La casa diventa praticamente l’unico ambiente che ci viene mostrato e la regista ci si muove benissimo, mostrandocene angoli e lati sempre più oscuri, in perfetto accordo con l’andamento della storia.
La lente d’ingrandimento
Il non detto, il sepolto, il rimosso, i traumi che generano nevrosi: questi sono i sottotesti di un film lento, ma inesorabile, che riesce a tracciare diversi percorsi appoggiandosi anche a fatti realmente accaduti (non vi diciamo quali, sennò spoileriamo e non è il caso). La storia mette a poco a poco tutti quanti sotto la lente d’ingrandimento della macchina da presa, che crea interrelazioni, alleanze e contrasti inaspriti da un passato che punge ancora.
Un film dunque che si appoggia anche a maestri come Romero e Carpenter per la loro tendenza a isolare membri di una comunità (la filmografia zombie di Romero, oppure La cosa e 1997: Fuga da New York di Carpenter parlano chiaro) e farli interagire al fine di mostrare e crepe di un sistema marcio, di una società in declino che ha perso i suoi punti di riferimento.
Non diciamo di più di un film che merita tantissimo, soprattutto visto l’accoglienza che ha ricevuto: silenzio e calma piatta.