
The Irishman | RomaFF14 – One more time, the last time
Questa non sarà una semplice recensione. Non può esserlo. Un po’ perché non mi sento adatto a parlare di un film di Scorsese, un po’ perché ogni mia parola potrebbe essere fraintesa. Il rischio è sempre quello di risultare banale. Di essere un semplice e qualunquista fan boy che ha appena assistito alla proiezione del progetto più irrealizzabile degli ultimi 10 anni. Dell’ultimo film di una leggenda vivente. The Irishman, pellicola firmata Martin Scorsese, era fino a questa mattina il film più atteso della 14esima edizione del Roma Film Festival.
A illuminare gli occhi di una sala gremita di stampa e accreditati, un cast capace di far venire la tremarella anche agli ultimi due capitoli degli Avengers (sto già facendo della velata polemica): Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci, Harvey Keitel, Bobby Cannavale, Anna Paquin e Ray Romano tra le stelle più brillanti al servizio della regia del mio amato Martin e della penna di Steven Zaillian. Vado velocissimo sulla trama perché abbiamo tanto di cui parlare: Frank Sheeran, l’irlandese, è un veterano della Seconda Guerra Mondiale nonché ladro e sicario, compagno di alcuni dei criminali più importanti degli anni ’60-’70. La sua vita cambierà radicalmente quando stringerà un profondo legame di amicizia con il sindacalista Jimmy Hoffa. Se non provate hype, chiudete la pagina. Altrimenti, seguitemi tra le righe di una mia solita masturbazione cinefila.
Ho ancora tempo…
Non so bene da dove cominciare. I miei potrebbero essere semplici pensieri alla rinfusa, ma giuro di impegnarmi per dargli un senso compiuto. Comincerei con il dirvi che The Irishman racconta di una vita. Una vita intera, vissuta, racchiusa in 3 ore e mezza capaci di scorrere con sorprendente facilità e che non annoiano (quasi) mai, con l’eccezione di una parte centrale eccessivamente prolissa. Così almeno ci siamo già tolti l’unico sassolino dalla scarpa. La vita è quella di Frank, un criminale come molti e allo stesso tempo come nessuno: Scorsese nega a Sheeran il piacere e il crogiolo dell’esaltazione, dell’ascesa al potere alla Scarface puntando solo ed esclusivamente sull’uomo. Sul tempo che passa inesorabile. Sull’amicizia, il rispetto e la famiglia. The Irishman è nudo e crudo, ovvero spoglio di ogni retorica e colmo di malinconia. A differenza di buona parte della sua filmografia, qui si percepisce il desiderio da parte del regista del Queens di prendersi il suo tempo. Di voler fare quel cazzo che vuole.
Di tutti gli assassini, le scorribande e le esecuzioni rimane lo spettacolo interiore di un protagonista leale, algido e pieno di rimorso. Gli occhi di Frank sono lo specchio di un mondo tangibile e in pieno stile scorsesiano; la sua voce è la guida tra le vie di una città sporca, grigia e che invecchia con tutti noi. Il tempo è l’elemento chiave per la lettura di un racconto che ha come capolinea la senilità e l’oblio di un personaggio tra i migliori scritti da Zaillian (e non solo). Non sorprende, ma impressiona con quanta maturità si guardi al passato ed allo stesso tempo al futuro; a quanto fatto con la propria vita (e carriera) oltre alla consapevolezza, un giorno forse, di essere dimenticato. The Irishman è un film crepuscolare, sentito, dal fortissimo calore umano. È l’ultimo canto di una generazione che ancora qualcosa da dire.
“You’re my friend Frank, a really good friend”
Perfettamente in bilico tra la commedia, il dramma e il mob movie, tutto questo splendore cinematografico non sarebbe stato possibile senza un così accurato lavoro sul rapporto tra Frank, Minna (Al Pacino) e il Bufalino di Joe Pesci: al di là di un cast di contorno orchestrato alla perfezione, l’amicizia tra i tre muove ogni vicenda e rende The Irishman un vero gioiello. A suon di flashback e sequenze da vero road movie, le dinamiche tra loro vengono esaltate e sono il cuore pulsante di una pellicola tanto intima quanto, non mi stancherò mai di ripeterlo, malinconica. Ogni dialogo ha tempi perfetti, aggiungeteci qualche scena da far scassare nettamente dal ridere e il gioco è presto fatto. Immaginatevi Joe Pesci e De Niro che parlano in perfetto siciliano. Troppo bello per essere vero? Chi lo sa.
Ulteriore pregio per The Irishman: Scorsese sperimenta come non faceva dai tempi di Hugo Cabret, giocando con l’effettistica (ringiovanendo quei tremendi vecchietti) e mettendo in mostra ogni briciolo del suo talento. Movimenti di macchina da erezione, un montaggio perfetto e tanto, tantissimo trasporto per il mezzo che solo un maestro è in grado di trasmettere. Il romanzo “I Heard You Paint Houses” non avrebbe mai potuto trovare connubio migliore. Devo infine fare un mea culpa e dare a Netflix quello che è di Netflix: grazie a loro il progetto di una vita (assieme a Silence) ha visto finalmente la luce e citando le parole di Scorsese in persona “[…] l’importante è che questo film venga visto. Non importa come.”
Un romantico addio
The Irishman suona tanto come il canto del cigno. Nella mia testa prende forma l’idea di un lungo e bellissimo addio come per The Old Man & the Gun (sempre con le dovute proporzioni). È una fortissima dichiarazione d’amore, un inedito sguardo a un regista che a 76 anni spacca ancora i culi a tutti e stupisce. Sempre. Il perfetto sunto di una carriera che non ha eguali.

I rimandi si sprecano: io ci ho visto qualcosa del Padrino, anche un po’ del Leone di C’era una volta in America, quel pizzico di Eastwood, ma soprattutto ci ho visto tanto Martin. Ho visto l’uomo. Non sarà mai il suo miglior film, non sarà nemmeno un capolavoro assoluto (perché non siamo esenti da difetti)… Ma sti grandissimi cazzi. The Irishman è già storia, nella storia. È LA storia del 2019.
P.S: Se potete, l’esperienza della sala vivetela. Quella non ve la ripaga nessuno, nemmeno noi del MacGuffin.