Film

The Killing of a Sacred Deer: dalla Grecia con amore (e non solo)

Se dal titolo starete già chiedendovi cosa sia The Killing of a Sacred Deer, non temete, non è colpa vostra: l’ultimo film di Yorgos Lanthimos, che mi aveva stupito con Dogtooth e fatto innamorare con The Lobsterha concorso per la Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes, arrivando in Italia nelle sale questo 24 aprile. Ma, attenzione, non in tutte le sale. Che ci vuoi fare, quando ti contendi il botteghino con un capolavoro come Arrivano i prof, sarà sempre il film di qualità a spuntarla… che tristezza.

The Killing of a Sacred Deer può contare su un cast molto fornito con un Colin Farrell in formissima, così come la Kidman, ma a far da padrone nell’intera pellicola è il perno centrale della narrazione, ovvero Barry Keoghan, che avevamo già conosciuto in Dunkirk: ecco, lui è davvero terrificante. Segnalo una scena in cui la commistione tra lui e un piatto di spaghetti dà vita al momento “cosa cazzo sto guardando e perché sto avendo paura?!”.

Ma andiamo con ordine: la trama.

Ha vinto il Prix du scenario a Cannes per la sceneggiatura, quindi, direte voi, la scrittura dovrà essere qualcosa di pasoliniano, bergmaniano, vanziniano, a esagerare. Ed effettivamente è così: non che io voglia avvicinare questo film a tali mostri sacri, ma da una trama semplice quale la storia di un chirurgo che intrattiene un rapporto d’amicizia con un giovane ragazzo, Martin, per motivi che verranno spiegati nel corso del film, The Killing of a Sacred Deer tira fuori dal cilindro una serie di riferimenti che esulano dal banale richiamo a Kubrick e vanno a finire nella tragedia e nella mitologia greca. Ebbene sì, pensavate che il liceo fosse finito, e invece no.

Per chi non è avvezzo a un tipo di cinema più “autoriale”, prendendo il termine per buono, il proseguire dell’intreccio, con il suo infittimento dovuto a eventi sovrannaturali che i personaggi accettano in maniera naturale, sarà incomprensibile: eppure, tutti i riferimenti il regista li pone, in ogni dialogo, che sembra preannunciare quel che succederà (basti guardare al momento in cui si fa riferimento a Ifigenia, figlia di Agamennone, sacrificata ad Artemide per placare il vento) o addirittura nel titolo stesso del film.

Il tema della colpa è analizzato con una freddezza tale da confondere anche i personaggi stessi del film, che, nella loro consapevolezza totale di quel che loro accadrà, sembrano muoversi su una linea che lo spettatore non è materialmente in grado di comprendere, nonostante si giunga ad un finale intuibile (di cui il regista stesso ci dà avvisaglie, come il quadro del cervo) ma condito con una scena finale che, quando ho visto, mi ha confermato di non aver ingerito per sbaglio alcun tipo di pasticca ma che il riferimento ricercato dal regista fosse davvero letterario.

E poi ci sono i geni, come il tipo che, uscito dalla sala, chiedeva dove si trovassero i cervi in questo film, perché lui non ne aveva visti. E per chiarire ogni dubbio, no, il tipo non ero io.

Eyes Wide Lanthimos.

La regia di The Killing of a Sacred Deer è perfetta, letteralmente: molti hanno distrutto il film descrivendolo come una semplice scopiazzatura di Kubrick, ma personalmente io ho trovato il distacco della macchina da presa e la propensione a una regia geometricissima e caratterizzata da toni di colore quasi neutri e asettici, sia funzionale alla storia, e, nonostante questa perfezione stilistica non mi sia piaciuta in tutte le scene, in molte altre mi ha sorpreso e non poso. Basti pensare alla scena in cui si segue il movimento della ragazzina, che ormai *SPOILER* striscia per terra: la macchina da presa, che si focalizza sull’ambiente e non sul soggetto, rende questa azione inconsueta molto inquietante alla visione.

“Non si sevizia un paperino”

Ma, proprio a proposito dell’inquietudine, The Killing of a Sacred Deer vince a mani basse. Il senso di straniamento che si prova guardando questa pellicola per la prima volta è ottimo e, personalmente, il regista riesce a tenere le redini della narrazione per due ore senza annoiare mai, pur mantenendo i personaggi statici fino alla fine e creando un vero e proprio “cinema dell’eccesso controllato”.

Purtroppo, è qualunquistico dirlo, ma è riduttivo, al giorno d’oggi, pensare che esistano solo capolavori e film del cazzo: se continuassimo tutti a fare paragoni forsennatamente, a trovare copie dove non ci sono, allora ci perderemmo ottimi film come questo. Nessuno tiene conto del fatto che le storie da portare sul grande schermo probabilmente si sono esaurite già 20 anni dopo la nascita della cinematografia: tutto è nel modo in cui si parla allo spettatore, e, forse, l’unico difetto di questo film è proprio il muro di cemento che crea tra lui e i casual watchers, ma, il mio consiglio, è quello di vederlo fino a quando è in sala, o, quantomeno, di recuperarlo. 

Vincenzo Di Maio

Nasce in quel di Napoli nel 1998 ma è rimasto ancora negli anni '80. Spesso pensa di esser stato un incidente ma i suoi genitori lo rassicurano: è stato molto peggio. Passa la totalità della sua giornata a guardare film e scrivere, ma ha anche altri interessi che ora non riesce a ricordare. Non lo invitate mai al cinema se non avete voglia di ascoltare un inevitabile sproloquio successivo, qualunque sia il film.
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