
The Nightingale e gli insulti in sala: uno strano caso a Venezia
La notizia ha già fatto il giro del mondo: all’anteprima stampa di The Nightingale uno sbarbatello qualsiasi (peraltro in cerca di notorietà, quindi mi taglio un dito ma il nome non lo scrivo) ha urlato “p*****a, fai schifo!” alla regista Jennifer Kent. Che manco era in sala, suppongo. Ripigliatevi un attimo dal surreale.
Fatto?
Bene. Posate le forbici dalla punta arrotondata e ringraziatelo silenziosamente per la figura di merda internazionale a sfondo sessista.

Questo episodio, all’apparenza una banale manifestazione di non gradimento che si trasforma in cafoneria nella bocca di un deficiente, è in realtà significativo. Una simbolica appendice per un film che tratta un argomento complicato in maniera fin troppo semplice e dogmatica.
The Nightingale: una parabola di oppressione
Colonie australiane, diciannovesimo secolo. Clare è una giovane prigioniera irlandese a cui un ufficiale inglese ha promesso la libertà. Ha un marito, una bambina piccola, e sogna di andarsene con la sua famiglia. L’ufficiale, che abusa regolarmente di lei, però la trattiene mese dopo mese a cantare per le truppe, rimandando la concessione del visto.
Scatta il revenge movie nel momento in cui il marito di Clare prova a ribellarsi e viene massacrato, insieme alla neonata. Clare vuole vendetta e si mette sulle tracce dell’ufficiale, partito per la città vicina, insieme a uno schiavo aborigeno di nome Billy.
The Nightingale si trasforma in una storia di riscatto dell’uomo nero e della donna nei confronti dell’oppressore, identificato nell’inevitabile esemplare di maschio caucasico, nella persona dell’ufficiale violento e dei suoi compari.
Cosa funziona
Intendiamoci, a me The Nightingale tutto sommato è piaciuto. La protagonista è brava ed efficace, non cade nel cliché della donna qualsiasi che diventa improvvisamente killer spietata. Le scene di violenza sono una mazzata allo stomaco, il contesto storico è affascinante e credibile.
I meccanismi di azione e reazione funzionano, tecnicamente è un prodotto impeccabile e Jennifer Kent è una regista di qualità (trovate qui la recensione di Babadook). Bella e funzionale all’atmosfera claustrofobica di oppressione la scelta di girare in 4:3, belle le ambientazioni naturali, buoni i tempi narrativi. E allora di che diamine mi lamento? Ora ci arrivo.
Cosa non mi è piaciuto
Viviamo in un momento storico tesissimo, per quanto riguarda il tema della discriminazione. La discriminazione di genere e quella su base etnica in questi ultimi anni sono tristemente tornate alle luci della ribalta, investendo anche le dinamiche interne al settore cinematografico.
Le giustissime (necessarie) rivendicazioni spesso però vengono affrontate in un modo che induce le diverse posizioni a polarizzarsi, a cercare lo scontro, più che l’incontro. Scegliere, nel 2018, di raccontare la storia di un’alleanza tra una donna e un uomo nero, che si uniscono per uccidere l’oppressore bianco, mi pare un po’ una spruzzata di Chanel n.5 e benzina sul fuoco.
L’ufficiale cattivo sullo schermo è tipo l’incarnazione del male. Dall’inizio alla fine di The Nightingale non ha un pensiero uno che non sia rivolto a: stupro, omicidio, infanticidio. Non ha profondità, non ha spessore. Delle sue motivazioni non sappiamo nulla e non lo vediamo mai compiere un gesto che non sia abietto e incomprensibilmente violento.
A cosa porta tutto questo?
Al deficiente che urla “p*****a”, esatto. Avete indovinato.
A fomentare un clima di divisione e ostilità su delle tematiche che dovrebbero essere invece universali e inclusive. La violenza riguarda tutti, anche se non ci tocca direttamente. La discriminazione riguarda tutti, anche se non ci tocca direttamente.
L’oppressore non è un cartonato, non è una figura astratta, non è un generico “ufficiale maschio bianco”. È un modo di pensare, sono modelli comportamentali molto spesso assimilati in modo passivo. Che vanno compresi, elaborati, aiutati ad evolvere, senza cedere alla tentazione del “noi contro loro”.
The Nightingale è un buon film, ma non lo trovo un film salutare per la nostra epoca. Resta interessante e indicativo: una delle tante testimonianze, a questa edizione del Festival, di tempi che cambiano e di vecchi problemi che si trasformano in nuovi problemi. La rassegna veneziana 2018 ci racconta anni confusi, con tanti interrogativi e poche soluzioni.