
The oak room: un lucido manuale del thriller a lume di birra
Regà sono esaltato. Il Torino Film Festival quest’anno si è mosso tra alti e bassi, regalando tuttavia piacevolissime sorprese. Già questo è un buon motivo per rimanere sintonizzati sui canali del MacGuffin. Ma se non doveste essere ancora convinti oggi vi parlo di The oak room, probabilmente la proiezione che più mi ha gasato in questa 38esima edizione del festival.
Vi posso raccontare una storia?
Il puntello su cui si regge la struttura narrativa di The oak room, ironicamente, è la narrazione stessa. Infatti l’intero film si snoda attraverso una serie di storie raccontate dai protagonisti.
La cosa interessante è che le storie sembrano aggrovigliarsi una sull’altra, fino quasi a confondersi tra loro creando sovrapposizioni che fanno crescere la tensione in modo esponenziale.
L’altro punto di grande interesse in The oak room è proprio questo: la gestione magistrale del clima e della tensione.
Manuale del thriller
Credetemi, io in primis sono uno che solitamente storce il naso quando lo trascinano a vedere un thriller. Non perché non mi interessi il genere in sé, ma perché da fine anni ’90 in poi sono uscite talmente tante pellicole riconducibili a questa categoria che mi sono anche un po’ rotto il cazzo. Anche perché la maggior parte sono cagatine. TORNIAMO AL CINEMA DI GENERE.
Tra questo mare di cacca (semicit.), talvolta, si nascondono dei gioielli. Come nel caso di The oak room.
Il film di Cody Calahan, a differenza di molti altri film del genere, non ha bisogno di creare intrighi incredibili che coinvolgono 400 diverse organizzazioni segrete che stanno pianificando un segretissimo progetto per dominare il mondo.
Il thriller, in teoria, si regge sulla tensione che sa creare; e The oak room lo fa in maniera eccellente.
Innanzitutto con una fotografia curatissima, fatta di chiaroscuri e tonalità calde e brillanti inserite però in un contesto di penombra. Mi sono eccitato solo a scriverla questa frase.
In secondo luogo perché la costruzione della tensione si basa unicamente sulle narrazioni che svolgono i personaggi nel corso del film. Quindi non ci sono spari, mitragliatrici, personaggi creduti morti che risorgono et similia. No: solo due persone sedute al bancone di un bar che si raccontano storie.
Apriamo una parentesi.
Sospensione dell’incredulità e attendibilità narrativa
È chiaro che non basta raccontare una storia per creare tensione, né tanto meno per dar vita a un thriller efficace. Il punto è che in The oak room ciò avviene perché non sappiamo nulla dei personaggi. Detto in maniera semplice: non sappiamo di chi ci possiamo fidare.
Essendo privi di qualsiasi punto di riferimento o background narrativi, rimaniamo in balia dei racconti che ci vengono rivolti, senza minimamente sapere se siano veritieri o fasulli.
La sceneggiatura in questo senso è un capolavoro, perché lungo tutta la durata del film continua a porci di fronte la questione dell’attendibilità. Uno dei personaggi sostiene che per raccontare una buona storia devi gonfiare la verità fino a renderla interessante. Da lì in poi, a ogni racconto, allo spettatore sorgerà il dubbio: ma quello che sta raccontando è successo veramente o sta gonfiando la verità?
Con solo questo meccanismo, tutto sommato semplice, ma decisamente brillante, The oak room ci mette in difficoltà e in tensione. Magistrale.

Scomposizione narrativa e déjà vu
No, ‘stavolta non c’entra il postmoderno.
Le storie che ci troviamo ad udire non ci vengono raccontate tutte in una botta, per intero. Al contrario, vengono spezzettate, inframmezzate dai commenti dei personaggi. Questo è un ulteriore elemento che accresce la tensione, perché ascoltare i personaggi che fanno considerazioni su ciò che sta accadendo all’interno del film – oltre ad essere meta – ci porta ulteriormente a mettere in dubbio quelle poche certezze che avevamo messo insieme.
Inoltre in tutte le storie che vengono raccontate si ha una strana sensazione di déjà vu, in quanto in ognuna di esse ci sono alcuni elementi ricorrenti. Una birra, un bar (il The oak room, da cui il titolo), la bufera di neve, la notte, delle scarpe bagnate.
Questi elementi, una volta notati e messi insieme, provocano un particolare effetto di sovrapposizione.

The oak room come coacervo
L’impressione, a un certo punto, è che le storie abbiano tutte qualcosa in comune, come se fossero legate da un sottile ed invisibile filo rosso che le tiene insieme. Ma non solo.
Sembra quasi che alcune parti delle storie siano sovrapponibili, quasi fossero la stessa storia o in qualche modo appartenessero alla stessa narrazione. Di nuovo: aumenta la tensione.
La cosa veramente figa è che questa tensione sale sale sale esponenzialmente, ma in maniera equilibrata, sino al finale, al quale arriviamo con meno certezze di quelle con cui eravamo partiti.
Incertezza e falso plot-twist
Senza stare a fare spoiler, sappiate solo che il finale è perfetto. La tensione raggiunge il suo culmine, accompagnata da uno dei pochissimi commenti sonori del film, per poi sgonfiarsi, salvo lasciare una sottile sensazione di inquietudine quando iniziano a scorrere i titoli di coda. Forse l’ho già detto, ma: magistrale.
Il meccanismo che sta alla base di questa geniale trovata finale è il falso plot-twist. Tutta la narrazione (o forse dovrei tutte le narrazioni) ci hanno portato ad aspettarci un certo tipo di esito, ma alla fine verremo disillusi.
E allora solo nel finale, quando è ormai troppo tardi, ci accorgiamo di essere stati intrappolati nello stesso meccanismo che governa la narrazione: la verità è stata gonfiata e noi ci stavamo credendo.
Magistrale.