
The Platform – Il Buco: un riuscito mix tra horror, politica e distopia
Fare la vita da reclusi, che detto in altri termini è “restare a casa ad annoiarsi”, dopo un po’ porta a fare cose inaspettate: tizi che non avevano mai acceso il forno si improvvisano pizzaioli, ci si riscopre a cantare l’inno d’Italia sui balconi che manco ai Mondiali del 2006, novelle casalinghe disperate si ritrovano a fare yoga tra il divano e il tavolo del soggiorno. Io sto continuando a nutrirmi a colpi di scatolette di tonno, non ho sviluppato alcun senso patrio correlato a improbabili doti canore e più che meditazione sono a un passo dall’usare il ficus come sacco da boxe. Però ho riscoperto un genere cinematografico che mi ha sempre lasciato abbastanza perplessa, quelle cose a metà fra l’horror, la fantascienza e la distopia. Un po’ troppi ingredienti perché possa uscirne qualcosa di buono, mi dicevo. Ebbene: il mio parere non cambia granché, solo che adesso provo un piacere perverso nel vedere storie di persone intrappolate in luoghi angusti. Mal comune mezzo gaudio, insomma. Ecco quindi che ho dedicato uno di questi innumerevoli sabato sera pantofolai a The Platform – Il Buco, film spagnolo del 2019 diretto da Galder Gaztelu-Urrutia e da poco approdato su Netflix.
La trama di The Platform – Il Buco di per sé non è nulla di particolarmente innovativo rispetto ai suoi cugini su celluloide: una struttura che potrebbe essere una prigione, ma non viene mai detto espressamente, si sviluppa in verticale sottoterra per centinaia e centinaia di metri. Nessuno sa esattamente di quanti livelli sia composta – chi dice cento, chi duecento, chi infiniti – ma tutti sono perfettamente consapevoli di come funziona: a chi sta in cima verrà dato modo di accedere per primo alla piattaforma, un’imponente tavola imbandita che viene calata ogni giorno all’interno del buco. Di conseguenza, i fortunati dei piani alti si ritroveranno davanti a un banchetto pantagruelico, mentre agli ultimi della scala, beh, tutto dipende dalla generosità dei primi. Già: perché la tavolata è pensata in modo che, se tutti prendessero una normale razione, ci sarebbe abbastanza cibo per ciascuno, dal primo all’ultimo. È anche vero che ingozzarsi a non finire mentre si è ai primi livelli conviene, perché ogni mese, a prescindere da quanto siano state eticamente corrette le loro azioni, gli inquilini vengono spostati di livello, in maniera del tutto casuale e imprevedibile. Si può precipitare dalle stelle alle stalle, risalire vertiginosamente oppure rimanere impantanati nella propria condizione, il tutto senza alcuno scopo apparente.
La solidarietà spontanea è davvero un’utopia? È quanto si chiede Goreng (Iván Massagué), che decide di entrare volontariamente in The Platform – Il Buco per sei mesi, premio finale nientemeno che un attestato di frequenza. I suoi primi incontri sembrerebbero confermare questa triste constatazione: il suo compagno di cella Trimagasi (Zorion Eguileor) non fa mistero di essere pronto al cannibalismo pur di sopravvivere, la bella Miharu (Alexandra Masangkay) pugnala chiunque le si pari davanti e la funzionaria Imoguiri (Antonia San Juan), pure rinchiusasi di sua sponte per constatare di persona la bontà e l’efficienza della fantomatica Amministrazione per cui lavora, dopo qualche tentativo fallimentare di spiegare alle masse come ridistribuire equamente le risorse viene presa dallo sconforto. Ma dove non arriva l’educazione, ecco che con il popolo le minacce sono infinitamente più efficaci, scopre amaramente Goreng.
Come dicevo, di primo acchito The Platform – Il Buco non è nulla di particolarmente innovativo – la storia è quasi lo specchio di High-Rise, per intenderci; ha però qualche pregio che vale la pena menzionare. Primo, il taglio espressamente politico che nei film precedenti era appena accennato. In The Platform – Il Buco si parla in modo aperto di redistribuzione, disuguaglianze, masse, società, individualismo. Quasi la messa in scena dello scontro fra gli intellettuali un po’ avulsi dal contesto – come unico oggetto, Goreng decide di portare con sé il Don Chisciotte – e il cosiddetto paese reale – i suoi compagni di sventure hanno dalla loro le armi più fantasiose. E lo fa senza nessun lirismo o ottimismo: nella stragrande maggioranza dei casi, le persone sono egoiste, grette e meschine, e l’unico modo per arrivare a fare la cosa giusta è attraverso la violenza. Altro che dispotismo illuminato, per non parlare della tanto sopravvalutata democrazia.
Secondo, l’estetica: su questo fronte, The Platform – Il Buco è un piccolo capolavoro. La prigione è spoglia, geometrica, un parallelepipedo di cemento armato grigio, come grigie sono le divise dei suoi abitanti. L’unica cosa colorata, barocca, ridondante? Il cibo, naturalmente. Un’orgia di abbondanza e decadentismo quasi disgustosa alla vista, che diventa il simbolo di tutte le disuguaglianze. E il sangue: denso, rosso, nero, e questo sì, davvero spaventoso.
Ultima, ma non per importanza, la durata: a differenza di altri, The Platform – Il Buco non sente il bisogno di ammazzare lo spettatore con sette ore di riflessione metafisica. Ciak, azione, dialoghi, stop. E proprio qui sta la sua forza.
Non è avvincente né innovativo quanto i primi episodi di Black Mirror, ma se ha fatto incetta di premi da Toronto alla Spagna un motivo ci sarà. Eppoi suvvia, non vi sembra perfetto per riflettere in modo sereno e distaccato su questa primavera 2020?